L'hanno
paragonato a Indiana Jones, ma Giovanni Battista Belzoni (Giambatta
in dialetto veneto) aveva in comune col personaggio di George Lucas e
Steven Spielberg solo la vita avventurosa e non certo la brillante
carriera di professore di archeologia. Era nato alla fine del
Settecento in un quartiere popolare di Padova, il Portello,
primogenito di Giacomo Bolzon un “tonsore” a capo di una famigli
numerosa e modesta dove i maschi dovevano iniziare presto a lavorare
per nutrire la tribù di bocche affamate. All'epoca il mestiere
comportava anche – oltre a regolare barba e capelli – salassi e
piccole operazioni chirurgiche, e sembra che il giovane garzone se la
cavasse abbastanza bene, se non fosse stato per l'immaginazione
vivace e la testa piena di sogni, unita alla tenace volontà di
realizzarli. Prova ne sia che a tredici anni scappò di casa col
fratellino Antonio, per cercare di raggiungere Roma, città che
doveva affascinarlo per la sua storia gloriosa, conosciuta attraverso
qualche lettura dei classici e ai racconti che se ne facevano; i due
sarebbero arrivati solo a Bologna per tornare poi a casa verso
l'inevitabile lavata di testa dei genitori, ma solo perché il
piccolo non ce la faceva più. Lui, Giovanni, non era stanco: stava
crescendo e sarebbe diventato un gigante di due metri e dieci di
altezza dotato di invidiabili salute e forza fisica, a cui l'ambiente
ristretto del Portello doveva sembrare soffocante.
Tre
anni dopo ritentò l'avventura verso la città eterna e ci riuscì.
Si era nel 1794, in piena epoca del “Grand Tour” quando folle di
viaggiatori e intellettuali benestanti attraversavano la penisola per
visitare le vestigia del Belpaese. Un viaggio troppo costoso per il
modesto figlio di barbiere, al punto che la mancanza di denaro rese
il suo periodo romano oscuro e difficile, probabilmente trascorso –
oltre che a contemplare e disegnare rovine – a cercare di mettere
assieme il pranzo con la cena. Fu lì che però apprese – non
sappiamo bene come – una serie di conoscenze idrauliche che gli
sarebbero servite in seguito, e da lì scappò quando le truppe
francesi guidate da Napoleone Bonaparte iniziarono la campagna
d'Italia con lo specifico scopo di abbattere gli antichi regimi
reazionari tra cui lo Stato Pontificio.
Un
giovane in buona salute rischiava l'arruolamento forzato: Giovanni
Battista fuggì quindi verso il nord Europa dove dal 1803 lo
ritroviamo a Londra. Grande, grosso e appariscente com'era trovò
lavoro presso un teatro di varietà, il Sadler's Wells. Impressionato
dalle dimensioni di Bolzon - che da quando era in Inghilterra aveva
cambiato il cognome in Belzoni - l'impresario pensò bene di cucirgli
un personaggio su misura, il selvaggio Sansone Patagonico. Davanti al
pubblico impaurito si presentava un colosso barbuto e dai capelli
lunghi, vestito di una tunica leopardata e che caricava su
un'imbracatura di ferro fino a dodici uomini, il tutto sorridendo
senza apparente fatica. Il successo fu totale: Giovanni era bello e
di modi gentili, raro agli scatti d'ira, sapeva controllare la sua
incredibile forza ed era ben disposto verso gli altri. Restò per un
po' al Sadler's Wells, fino a quando l'avventura ricominciò a
chiamarlo: nel frattempo aveva trovato moglie, Sarah, una donna molto
indipendente e intraprendente che si adatterà con coraggio alla vita
vagabonda del marito. Assieme i due viaggiarono per tutta l'Europa,
presentando il Sansone Patagonico arricchito da fiamme e giochi di
fontane colorate di sua invenzione.
Approdarono
infine in Egitto - a quel tempo una provincia dell'impero ottomano –
dove il pascià Mehmet Alì voleva intraprendere un vasto programma agricolo che avrebbe
comportato grossi lavori di irrigazione, la materia in cui Belzoni si
era specializzato a Roma. Il progetto non sarebbe mai andato in
porto, ma nel nuovo e affascinante paese Giovanni avrebbe scoperto la
sua vera vocazione, trasformandosi da esperto di idraulica in
pioniere dell'archeologia. Dopo la campagna napoleonica che aveva
attirato l'attenzione dell'Europa sul paese, l'Egitto – dimenticato
per secoli – era diventato di moda e si era riempito di
avventurieri (la maggior parte senza scrupoli) interessati soltanto a
depredarlo delle sue antichità, che non godendo di alcuna protezione
a causa dell'assoluta mancanza di leggi in materia, potevano essere
portate impunemente all'estero. Nel 1815 non era ancora stata
decifrata la scrittura geroglifica (ci sarebbe riuscito qualche anno
dopo Jean-François Champollion con la celeberrima stele di Rosetta)
e gli scavatori procedevano a casaccio, nella vana speranza di
ritrovare oro e pietre preziose, senza alcun rispetto per le parti
murarie, che venivano picconate senza pietà o addirittura fatte
saltare con l'esplosivo. Giovanni Battista Belzoni che, al contrario,
era rimasto senza fiato di fronte alla bellezza di quei posti, decise
seduta stante di esplorare il paese e raccogliere antichità da
mandare a Londra, ma sempre attento al rispetto per quella venerabile
civiltà.
Dal
1816 al 1819 il padovano compì tre importanti viaggi archeologici
spingendosi verso sud tra mille difficoltà, scoprendo siti,
raccogliendo manufatti e spendendo un mucchio di denaro per
organizzare le sue avventure, ottenere il favore dei capi arabi,
pagare gli operai. Non voleva dipendere né dai francesi né dagli
inglesi che si dividevano l'Egitto e scoprì ben presto che senza il
loro aiuto accordarsi con la popolazione locale era una questione
complicata: a quel tempo il lavoro manuale o l'interessamento di
qualche potente dovevano essere conquistati con regalie in natura
come tabacco, sapone, sale, zucchero, a volte vino (alla faccia della
legge coranica) mentre in molte parti del paese la moneta locale, la
piastra, non era nemmeno conosciuta. Per ingraziarsi gli operai, che
spesso non si presentavano al lavoro, imparò anche l'arabo e
cominciò a vestirsi con turbante e caftano. Un altro intralcio fu
costituito dai rapporti, dapprima amichevoli, poi via via sempre più
tesi, coll'influente console francese (ma di nascita italiana)
Bernardino Drovetti che dapprima gli aprì molte porte importanti,
poi – infastidito dall'intraprendenza e indipendenza di Giovanni –
cominciò ad ostacolarlo impedendogli di scavare dove voleva lui e
alla fine riuscì a rispedirlo definitivamente in l'Europa seguito da
una nave carica di reperti. In quanto al console – fanatico
collezionista – vendette la sua imponente raccolta ai Savoia
gettando le fondamenta per il Museo Egizio di Torino.
Il
primo importante reperto raccolto da Belzoni fu il busto crollato del
faraone Ramses II – ribattezzato erroneamente “il giovane
Memnone”- una statua in granito alta quasi tre metri e di sette
tonnellate e mezzo di peso il cui viso rivolto al cielo – secondo
l'aspirante archeologo - “si sarebbe detto che sorridesse all'idea
di essere trasportato in Inghilterra”. Grazie alle sue conoscenze
ingegneristiche Giovanni costruì una grande slitta e riuscì in soli
15 giorni a trascinare il monumento fino al Nilo per caricarlo su una
barca. Mentre il colosso abbandonava il Ramesseum di Tebe dove era
stato rinvenuto, il padovano decise di dirigersi verso il sud
dell'Egitto, superando in battello le pericolose cateratte del Nilo
per raggiungere Abu Simbel a 1200 chilometri dal Cairo dove i templi
di Ramses II e della regina Nefertari - già scoperti
dall'esploratore e orientalista svizzero Johann Ludwig Burckhardt –
erano in gran parte sepolti dalla sabbia. Belzoni iniziò lo scavo ma
– a corto di viveri e di denaro – dovette interrompere il lavoro
che avrebbe proseguito solo nel
1817 con sua grande delusione perché all'interno non riuscì a
trovare i tesori che sperava lo risarcissero delle spese.
Nello stesso anno si concentrò anche sulla valle dei Re in cui avrebbe rinvenuto otto tombe tra cui quella di Seti I, padre di Ramses II, soprannominata "cappella Sistina egizia" per la splendida decorazione a bassorilievi policromi. Come la maggior parte delle sepolture faraoniche anche questa era stata saccheggiata e la mummia riposta per proteggerla assieme ad altre in una sorta di deposito a Deir el-Bari, da cui molti anni dopo venne estratta. Sormontato da uno splendido soffitto stellato, il sepolcro fu lasciato intatto da Belzoni, ma successivamente aggredito da avventurieri senza scrupoli che ne asportarono parte dei dipinti finché il governo egiziano non lo chiuse del tutto, permettendone la visita solo in rare occasioni. Giambatta era uno di quegli uomini che non riusciva a riposare sugli allori: conclusa la tomba di Seti I chiese un prestito e decise di dedicarsi alla piramide di Chefren, la seconda in grandezza tra i monumenti di Giza dopo quella voluta dal padre Cheope, e l'unica ad aver mantenuto intatto una piccola parte del rivestimento in calcare che faceva splendere i monumenti come prismi lucenti.
Da secoli se ne era dimenticato l'ingresso e si pensava che non esistessero camere sepolcrali; manco a dirlo Giovanni riuscì a risolvere il dilemma e, penetrato all'interno, pensò bene di lasciare la sua vistosissima firma sulle pareti, in modo da non farsi derubare del merito; quelle delle firme era una sua mania: forse per la sua umile origine, forse per paura che le sue ricerche non fossero riconosciute, aveva già lasciato il suo cognome inciso dietro l'orecchio del Memnone-Ramses, oltre che accanto al piede di una statua di Amenofi e su un altare antico.
I coniugi Belzoni tornarono in Italia alla fine del 1819, regalarono due statue alla municipalità di Padova e ne ricevettero in cambio una trionfale medaglia commemoratica col ritratto di lui. A Londra - ormai città adottiva di Giovanni - pubblicarono un libro sui viaggi in Egitto corredato da mappe e acquerelli, e organizzarono una mostra di reperti tra cui i calchi dei rilievi della tomba di Seti I.
Il figlio del barbiere era ormai accolto nei salotti più illustri e fu ricevuto anche dall zaro di Russia, ma si trovava come al solito a corto di denaro. Accettò quindi di ripartire per l'Africa da solo, alla ricerca delle sorgenti del fiume Niger; a quell'epoca si viaggiava senza vaccini nè cure mediche e lui si fidava forse troppo della sua fibra robusta: giunto al porto fluviale di Gwato fu aggredito dalla dissenteria morendone a soli 45 anni. Sarah sarebbe invece vissuta fino a tarda età, cercando di tener viva la memoria del marito.
Fonte: Marco Zatterin, Il gigante del Nilo, ed. il Mulino
![](https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhwzqIouPSkMTI3mRhnOK97yELea5VEG8JpstiX_DmEz9OWPxojOv3iLarc4jmc6dhu8cw1gUoa0gRJr00jHc_m1EaFE1Jo2xjG_QtUDuRhOQJ3Ddc96rO0WohY_6leb0tB2BN5m0XCrSM/s320/David+Roberts.+Abu+Simbel+sommerso+dalla+sabbia.jpg)
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Il figlio del barbiere era ormai accolto nei salotti più illustri e fu ricevuto anche dall zaro di Russia, ma si trovava come al solito a corto di denaro. Accettò quindi di ripartire per l'Africa da solo, alla ricerca delle sorgenti del fiume Niger; a quell'epoca si viaggiava senza vaccini nè cure mediche e lui si fidava forse troppo della sua fibra robusta: giunto al porto fluviale di Gwato fu aggredito dalla dissenteria morendone a soli 45 anni. Sarah sarebbe invece vissuta fino a tarda età, cercando di tener viva la memoria del marito.
Fonte: Marco Zatterin, Il gigante del Nilo, ed. il Mulino
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