domenica 17 settembre 2017

Giambatta Bolzon, il barbiere padovano che svelò i misteri dei Faraoni

L'hanno paragonato a Indiana Jones, ma Giovanni Battista Belzoni (Giambatta in dialetto veneto) aveva in comune col personaggio di George Lucas e Steven Spielberg solo la vita avventurosa e non certo la brillante carriera di professore di archeologia. Era nato alla fine del Settecento in un quartiere popolare di Padova, il Portello, primogenito di Giacomo Bolzon un “tonsore” a capo di una famigli numerosa e modesta dove i maschi dovevano iniziare presto a lavorare per nutrire la tribù di bocche affamate. All'epoca il mestiere comportava anche – oltre a regolare barba e capelli – salassi e piccole operazioni chirurgiche, e sembra che il giovane garzone se la cavasse abbastanza bene, se non fosse stato per l'immaginazione vivace e la testa piena di sogni, unita alla tenace volontà di realizzarli. Prova ne sia che a tredici anni scappò di casa col fratellino Antonio, per cercare di raggiungere Roma, città che doveva affascinarlo per la sua storia gloriosa, conosciuta attraverso qualche lettura dei classici e ai racconti che se ne facevano; i due sarebbero arrivati solo a Bologna per tornare poi a casa verso l'inevitabile lavata di testa dei genitori, ma solo perché il piccolo non ce la faceva più. Lui, Giovanni, non era stanco: stava crescendo e sarebbe diventato un gigante di due metri e dieci di altezza dotato di invidiabili salute e forza fisica, a cui l'ambiente ristretto del Portello doveva sembrare soffocante.

Tre anni dopo ritentò l'avventura verso la città eterna e ci riuscì. Si era nel 1794, in piena epoca del “Grand Tour” quando folle di viaggiatori e intellettuali benestanti attraversavano la penisola per visitare le vestigia del Belpaese. Un viaggio troppo costoso per il modesto figlio di barbiere, al punto che la mancanza di denaro rese il suo periodo romano oscuro e difficile, probabilmente trascorso – oltre che a contemplare e disegnare rovine – a cercare di mettere assieme il pranzo con la cena. Fu lì che però apprese – non sappiamo bene come – una serie di conoscenze idrauliche che gli sarebbero servite in seguito, e da lì scappò quando le truppe francesi guidate da Napoleone Bonaparte iniziarono la campagna d'Italia con lo specifico scopo di abbattere gli antichi regimi reazionari tra cui lo Stato Pontificio.
Un giovane in buona salute rischiava l'arruolamento forzato: Giovanni Battista fuggì quindi verso il nord Europa dove dal 1803 lo ritroviamo a Londra. Grande, grosso e appariscente com'era trovò lavoro presso un teatro di varietà, il Sadler's Wells. Impressionato dalle dimensioni di Bolzon - che da quando era in Inghilterra aveva cambiato il cognome in Belzoni - l'impresario pensò bene di cucirgli un personaggio su misura, il selvaggio Sansone Patagonico. Davanti al pubblico impaurito si presentava un colosso barbuto e dai capelli lunghi, vestito di una tunica leopardata e che caricava su un'imbracatura di ferro fino a dodici uomini, il tutto sorridendo senza apparente fatica. Il successo fu totale: Giovanni era bello e di modi gentili, raro agli scatti d'ira, sapeva controllare la sua incredibile forza ed era ben disposto verso gli altri. Restò per un po' al Sadler's Wells, fino a quando l'avventura ricominciò a chiamarlo: nel frattempo aveva trovato moglie, Sarah, una donna molto indipendente e intraprendente che si adatterà con coraggio alla vita vagabonda del marito. Assieme i due viaggiarono per tutta l'Europa, presentando il Sansone Patagonico arricchito da fiamme e giochi di fontane colorate di sua invenzione.

Approdarono infine in Egitto - a quel tempo una provincia dell'impero ottomano – dove il pascià Mehmet Alì voleva intraprendere un vasto programma agricolo che avrebbe comportato grossi lavori di irrigazione, la materia in cui Belzoni si era specializzato a Roma. Il progetto non sarebbe mai andato in porto, ma nel nuovo e affascinante paese Giovanni avrebbe scoperto la sua vera vocazione, trasformandosi da esperto di idraulica in pioniere dell'archeologia. Dopo la campagna napoleonica che aveva attirato l'attenzione dell'Europa sul paese, l'Egitto – dimenticato per secoli – era diventato di moda e si era riempito di avventurieri (la maggior parte senza scrupoli) interessati soltanto a depredarlo delle sue antichità, che non godendo di alcuna protezione a causa dell'assoluta mancanza di leggi in materia, potevano essere portate impunemente all'estero. Nel 1815 non era ancora stata decifrata la scrittura geroglifica (ci sarebbe riuscito qualche anno dopo Jean-François Champollion con la celeberrima stele di Rosetta) e gli scavatori procedevano a casaccio, nella vana speranza di ritrovare oro e pietre preziose, senza alcun rispetto per le parti murarie, che venivano picconate senza pietà o addirittura fatte saltare con l'esplosivo. Giovanni Battista Belzoni che, al contrario, era rimasto senza fiato di fronte alla bellezza di quei posti, decise seduta stante di esplorare il paese e raccogliere antichità da mandare a Londra, ma sempre attento al rispetto per quella venerabile civiltà.
Dal 1816 al 1819 il padovano compì tre importanti viaggi archeologici spingendosi verso sud tra mille difficoltà, scoprendo siti, raccogliendo manufatti e spendendo un mucchio di denaro per organizzare le sue avventure, ottenere il favore dei capi arabi, pagare gli operai. Non voleva dipendere né dai francesi né dagli inglesi che si dividevano l'Egitto e scoprì ben presto che senza il loro aiuto accordarsi con la popolazione locale era una questione complicata: a quel tempo il lavoro manuale o l'interessamento di qualche potente dovevano essere conquistati con regalie in natura come tabacco, sapone, sale, zucchero, a volte vino (alla faccia della legge coranica) mentre in molte parti del paese la moneta locale, la piastra, non era nemmeno conosciuta. Per ingraziarsi gli operai, che spesso non si presentavano al lavoro, imparò anche l'arabo e cominciò a vestirsi con turbante e caftano. Un altro intralcio fu costituito dai rapporti, dapprima amichevoli, poi via via sempre più tesi, coll'influente console francese (ma di nascita italiana) Bernardino Drovetti che dapprima gli aprì molte porte importanti, poi – infastidito dall'intraprendenza e indipendenza di Giovanni – cominciò ad ostacolarlo impedendogli di scavare dove voleva lui e alla fine riuscì a rispedirlo definitivamente in l'Europa seguito da una nave carica di reperti. In quanto al console – fanatico collezionista – vendette la sua imponente raccolta ai Savoia gettando le fondamenta per il Museo Egizio di Torino.

Il primo importante reperto raccolto da Belzoni fu il busto crollato del faraone Ramses II – ribattezzato erroneamente “il giovane Memnone”- una statua in granito alta quasi tre metri e di sette tonnellate e mezzo di peso il cui viso rivolto al cielo – secondo l'aspirante archeologo - “si sarebbe detto che sorridesse all'idea di essere trasportato in Inghilterra”. Grazie alle sue conoscenze ingegneristiche Giovanni costruì una grande slitta e riuscì in soli 15 giorni a trascinare il monumento fino al Nilo per caricarlo su una barca. Mentre il colosso abbandonava il Ramesseum di Tebe dove era stato rinvenuto, il padovano decise di dirigersi verso il sud dell'Egitto, superando in battello le pericolose cateratte del Nilo per raggiungere Abu Simbel a 1200 chilometri dal Cairo dove i templi di Ramses II e della regina Nefertari - già scoperti dall'esploratore e orientalista svizzero Johann Ludwig Burckhardt – erano in gran parte sepolti dalla sabbia. Belzoni iniziò lo scavo ma – a corto di viveri e di denaro – dovette interrompere il lavoro che avrebbe proseguito solo nel 1817 con sua grande delusione perché all'interno non riuscì a trovare i tesori che sperava lo risarcissero delle spese. 
Nello stesso anno si concentrò anche sulla valle dei Re in cui avrebbe rinvenuto otto tombe tra cui quella di Seti I, padre di Ramses II, soprannominata "cappella Sistina egizia" per la splendida decorazione a bassorilievi policromi. Come la maggior parte delle sepolture faraoniche anche questa era stata saccheggiata e la mummia riposta per proteggerla assieme ad altre in una sorta di deposito a Deir el-Bari, da cui molti anni dopo venne estratta. Sormontato da uno splendido soffitto stellato, il sepolcro fu lasciato intatto da Belzoni, ma successivamente aggredito da avventurieri senza scrupoli che ne asportarono parte dei dipinti finché il governo egiziano non lo chiuse del tutto, permettendone la visita solo in rare occasioni. Giambatta era uno di quegli uomini che non riusciva a riposare sugli allori: conclusa la tomba di Seti I chiese un prestito e decise di dedicarsi alla piramide di Chefren, la seconda in grandezza tra i monumenti di Giza dopo quella voluta dal padre Cheope, e l'unica ad aver mantenuto intatto una piccola parte del rivestimento in calcare che faceva splendere i monumenti come prismi lucenti. 
Da secoli se ne era dimenticato l'ingresso e si pensava che non esistessero camere sepolcrali; manco a dirlo Giovanni riuscì a risolvere il dilemma e, penetrato all'interno, pensò bene di lasciare la sua vistosissima firma sulle pareti, in modo da non farsi derubare del merito; quelle delle firme era una sua mania: forse per la sua umile origine, forse per paura che le sue ricerche non fossero riconosciute, aveva già lasciato il suo cognome inciso dietro l'orecchio del Memnone-Ramses, oltre che accanto al piede di una statua di Amenofi e su un altare antico.
I coniugi Belzoni tornarono in Italia alla fine del 1819, regalarono due statue alla municipalità di Padova e ne ricevettero in cambio una trionfale medaglia commemoratica col ritratto di lui. A Londra - ormai città adottiva di Giovanni - pubblicarono un libro sui viaggi in Egitto corredato da mappe e acquerelli, e organizzarono una mostra di reperti tra cui i calchi dei rilievi della tomba di Seti I. 
Il figlio del barbiere era ormai accolto nei salotti più illustri e fu ricevuto anche dall zaro di Russia, ma si trovava come al solito a corto di denaro. Accettò quindi di ripartire per l'Africa da solo, alla ricerca delle sorgenti del fiume Niger; a quell'epoca si viaggiava senza vaccini nè cure mediche e lui si fidava forse troppo della sua fibra robusta: giunto al porto fluviale di Gwato fu aggredito dalla dissenteria morendone a soli 45 anni. Sarah sarebbe invece vissuta fino a tarda età, cercando di tener viva la memoria del marito.
Fonte: Marco Zatterin, Il gigante del Nilo,  ed. il Mulino

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