martedì 19 settembre 2017

Edward Hopper, l’eremita della pittura americana

Chi ha visto Psycho di Alfred Hitchcock ricorderà la scena: la giovane e bella Marion Crane (Janet Leigh), scappando dopo aver rubato 40.000 dollari, si ripara da un violento acquazzone presso il Bates motel dove troverà una terribile morte. Il posto è situato proprio sotto una vecchia e sinistra casa vittoriana dove abitano il proprietario (Anthony Perkins) e la madre; una villa in stile neogotico munita di una torretta e di un portico di accesso. La lugubre e isolata abitazione non fu però inventata da Hitchcock, ma fu copiata da “La casa sulla ferrovia”, un dipinto americano del 1925. L’autore, Edward Hopper, è stato uno dei più grandi pittori statunitensi del XX secolo, fonte inesauribile di ispirazione per generazioni di cineasti: da George Stevens, a Robert Altman , a David Lynch, a Wim Wenders al nostro Dario Argento, solo per citarne alcuni. L’attrazione che Hopper ha esercitato sul mondo cinema fu reciproca. Nato nel 1882, l’artista aveva 13 anni quando furono proiettate sugli schermi le prime immagini in movimento, e lui stesso affermò più tardi che quando non era in vena di dipingere passava le sue settimane a vedere film, in particolare noir.

La sua fu una biografia senza particolari scossoni: era figlio di genitori piccolo-borghesi che, quando il ragazzo manifestò attitudini artistiche, non gli negarono gli studi ma lo fecero iscrivere prima a una scuola di illustratori per corrispondenza, poi alla New York School of Art. Il suo maestro, Robert Henri, spingeva i suoi allievi a guardare la realtà piuttosto che alla pittura di maniera che dominava all’inizio del Novecento, rifiutandone le rigide regole accademiche, ma senza dimenticare la lezione dei grandi maestri del passato e di pittori francesi come Degas e Manet. Fu inevitabile che una volta diplomato, Hopper compisse un viaggio a Parigi – sogno e meta di molti giovani artisti d’oltreoceano - per conoscere da vicino gli impressionisti. Il risultato dei suoi studi però sarebbe stato assolutamente personale: più che all’acqua, alla natura e all’evanescenza delle forme si sarebbe interessato all’architettura e ai volumi dando ai suoi primi lavori un forte senso di solidità.
Gli inizi della sua carriera non furono facili: l’attività artistica non fruttava e per mantenersi Edward dovette fare l’illustratore, mestiere che esercitò con molti mal di pancia, perché lo considerava troppo vincolato al mercato e lesivo della sua libertà espressiva. In tal modo si barcamenò per quasi vent’anni finché – ottenuti i primi riconoscimenti – lasciò definitivamente quel lavoro per dedicarsi solo alla sua arte. Stava abbandonando i soggetti europei per affrontare esclusivamente quelli americani, in particolare le immagini urbane di New York e la natura del New England. Per superare la pittura “en plein air” imparò anche la tecnica dell’acquaforte, ricostruendo il soggetto in studio e affidandosi solo ai suoi ricordi e alla sua immaginazione. A questo quest’ultimo genere appartiene “Ombre nella notte”, una strada cittadina inquadrata dall’alto con un moderno taglio fotografico e attraversata da un unico e solitario passante, un’opera piena di tensione e mistero, che certamente deve molto al cinema in bianco e nero. L’incisione è degli anni Venti, i “roaring twenty”, anni ruggenti di sviluppo economico, dell’esplosione del jazz, di un balzo in avanti qualitativo anche nella vita quotidiana, della diffusione dell’automobile e degli elettrodomestici. Ma niente di questo frenetico ottimismo trapela da questo e da altri lavori di Hopper. La sua America è deserta e priva del fascino del mito: i soggetti rappresentano scorci di vie urbane, caffè, drugstore, distributori di benzina, negozi, appartamenti e uffici popolati da rari personaggi, immagini irreali immerse in una luce cruda che blocca qualsiasi movimento, mentre tutto sembra essere pervaso da un senso di vuoto e solitudine.

Opere che assomigliano alla vita eremitica che lui stesso si scelse: per quasi due terzi della sua esistenza visse e lavorò in uno studio a Washington Square, New York, senza bagno né frigorifero, e con il riscaldamento a carbone che doveva essere portato in casa percorrendo a fatica quattro rampe di scale; in compenso la vista era bellissima e un grande lucernaio gli offriva la luminosità necessaria per dipingere. Uomo di vaste letture, aveva pochi amici e se doveva parlare della sua pittura si esprimeva in modo asciutto, quasi a monosillabi; era timido chiuso e nevrotico, un personaggio antieroico come si presenta lui stesso in un autoritratto col cappello, con un viso inespressivo da uomo che si può incontrare ogni giorno e dimenticare subito dopo. Di lui fu scritto che nessuno era più sicuro della realtà dei fatti e meno convinto del loro valore. Scapolo fino ad oltre quarant’anni, si sposò nel 1924 con Josephine Verstille Nivison, una pittrice che sarebbe stata per il resto della vita la sua segretaria e la sua unica modella e che avrebbe condiviso la sua vita di recluso, rinunciando a malincuore anche alla propria creatività, cui era soprattutto contrario il marito: “Non è bello avere una moglie che dipinge?” – gli aveva chiesto una volta lei – “Puzza” lui le aveva risposto. Ci sono rimasti i diari di Jo, che raccontano di un’unione non facile: lei era estroversa e curiosa, lui chiuso, indolente e solitario, un “cencio senza consapevolezza”. Arrivarono alle percosse reciproche, graffi, morsi, pugni e ceffoni; ciò nonostante non si lasciarono mai e nel loro venticinquesimo anniversario di matrimonio Hopper realizzò uno stemma che rappresentava il loro matrimonio attraverso un mestolo e un mattarello, simbolo di quella strana coppia che campava di amore e violenza domestica.

L’arte di Edward Hopper ebbe successo solo dopo il 1924, periodo dopo il quale rafforza sempre di più la sua coerenza figurativa: uno dei suoi temi caratteristici è la rappresentazione di ambienti inquadrati come se se fossero visti da un osservatore esterno. Nascono così alcuni capolavori come “Finestre di notte”, “Ufficio di notte”, “Stanza d’albergo” o il notissimo “Nottambuli” (Nighthawks), quadro da lui molto amato. Nonostante raffigurasse scene del suo paese rifiutò sempre l’appellativo di “pittore della realtà americana”, affermando che non voleva dipingere quello che vedeva ma solo ciò che provava; allo stesso modo non accettò che gli dicessero che i suoi quadri riflettevano l’isolamento della vita moderna, sostenendo che gli interessavano di più la luce e i colori. Sappiamo che non si metteva in posa davanti a un soggetto, ma che piuttosto raccoglieva le sue impressioni in numerosi schizzi, e che reinventava la realtà a suo modo, inserendovi elementi presi da diversi posti che aveva osservato. Quando dipinse “Gas” immagine notturna di una pompa di benzina – forse la prima rappresentazione artistica di una stazione di servizio – dichiarò che il posto non esisteva ma che se l’era inventato dopo averne osservate parecchie.

Si era costruito una casetta a Massachusetts Bay dove passò ogni estate assieme a Josephine. Gli piacevano la luce molto intensa, le coste spazzate dal vento, le rocce, l’oceano, i fari e le rare case dai tetti a punta e dalle pareti bianche. Non smise mai di abbandonare lo studio della luce e non a caso nel titolo dei dipinti eseguiti tra gli anni Cinquanta e Sessanta compare spesso la parola “sole”. L’ultimo lavoro, prima di spegnersi ormai ottantacinquenne a New York, rappresenta lui e sua moglie come due attori sul palcoscenico di un teatro mentre – a fine rappresentazione - si inchinano di fronte al pubblico, un modo ironico di abbandonare la commedia della vita. Jo Hopper morì dieci mesi dopo il marito, lasciando in eredità al Whitney Museum of Modern Art di New York più di tremila lavori fra dipinti, disegni, acquerelli e stampe.

Fonti: Elena Pontiggia, Hopper, I Classici dell’arte, Rizzoli-Skira

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