Chi
ha visto Psycho di Alfred Hitchcock ricorderà la scena: la giovane e
bella Marion Crane (Janet Leigh), scappando dopo aver rubato 40.000
dollari, si ripara da un violento acquazzone presso il Bates motel
dove troverà una terribile morte. Il posto è situato proprio sotto
una vecchia e sinistra casa vittoriana dove abitano il proprietario
(Anthony Perkins) e la madre; una villa in stile neogotico munita di
una torretta e di un portico di accesso. La lugubre e isolata
abitazione non fu però inventata da Hitchcock, ma fu copiata da “La
casa sulla ferrovia”, un dipinto americano del 1925. L’autore,
Edward Hopper, è stato uno dei più grandi pittori statunitensi del
XX secolo, fonte inesauribile di ispirazione per generazioni di
cineasti: da George Stevens, a Robert Altman , a David Lynch, a Wim
Wenders al nostro
Dario Argento, solo per citarne alcuni. L’attrazione che Hopper ha
esercitato sul mondo cinema fu reciproca. Nato nel 1882, l’artista
aveva 13 anni quando furono proiettate sugli schermi le prime
immagini in movimento, e lui stesso affermò più tardi che quando
non era in vena di dipingere passava le sue settimane a vedere film,
in particolare noir.
La
sua fu una biografia senza particolari scossoni: era figlio di
genitori piccolo-borghesi che, quando il ragazzo manifestò
attitudini artistiche, non gli negarono gli studi ma lo fecero
iscrivere prima a una scuola di illustratori per corrispondenza, poi
alla New York School of Art. Il suo maestro, Robert Henri, spingeva i
suoi allievi a guardare la realtà piuttosto che alla pittura di
maniera che dominava all’inizio del Novecento, rifiutandone le
rigide regole accademiche, ma senza dimenticare la lezione dei grandi
maestri del passato e di pittori francesi come Degas e Manet. Fu
inevitabile che una volta diplomato, Hopper compisse un viaggio a
Parigi – sogno e meta di molti giovani artisti d’oltreoceano -
per conoscere da vicino gli impressionisti. Il risultato dei suoi
studi però sarebbe stato assolutamente personale: più che
all’acqua, alla natura e all’evanescenza delle forme si sarebbe
interessato all’architettura e ai volumi dando ai suoi primi lavori
un forte senso di solidità.
Gli
inizi della sua carriera non furono facili: l’attività artistica
non fruttava e per mantenersi Edward dovette fare l’illustratore,
mestiere che esercitò con molti mal di pancia, perché lo
considerava troppo vincolato al mercato e lesivo della sua libertà
espressiva. In tal modo si barcamenò per quasi vent’anni finché –
ottenuti i primi riconoscimenti – lasciò definitivamente quel
lavoro per dedicarsi solo alla sua arte. Stava abbandonando i
soggetti europei per affrontare esclusivamente quelli americani, in
particolare le immagini urbane di New York e la natura del New
England. Per superare la pittura “en plein air” imparò anche la
tecnica dell’acquaforte, ricostruendo il soggetto in studio e
affidandosi solo ai suoi ricordi e alla sua immaginazione. A questo
quest’ultimo genere appartiene “Ombre nella notte”, una strada
cittadina inquadrata dall’alto con un moderno taglio fotografico e
attraversata da un unico e solitario passante, un’opera piena di
tensione e mistero, che certamente deve molto al cinema in bianco e
nero. L’incisione è degli anni Venti, i “roaring twenty”, anni
ruggenti di sviluppo economico, dell’esplosione del jazz, di un
balzo in avanti qualitativo anche nella vita quotidiana, della
diffusione dell’automobile e degli elettrodomestici. Ma niente di
questo frenetico ottimismo trapela da questo e da altri lavori di
Hopper. La sua America è deserta e priva del fascino del mito: i
soggetti rappresentano scorci di vie urbane, caffè, drugstore,
distributori di benzina, negozi, appartamenti e uffici popolati da
rari personaggi, immagini irreali immerse in una luce cruda che
blocca qualsiasi movimento, mentre tutto sembra essere pervaso da un
senso di vuoto e solitudine.
Opere
che assomigliano alla vita eremitica che lui stesso si scelse: per
quasi due terzi della sua esistenza visse e lavorò in uno studio a
Washington Square, New York, senza bagno né frigorifero, e con il
riscaldamento a carbone che doveva essere portato in casa percorrendo
a fatica quattro rampe di scale; in compenso la vista era bellissima
e un grande lucernaio gli offriva la luminosità necessaria per
dipingere. Uomo di vaste letture, aveva pochi amici e se doveva
parlare della sua pittura si esprimeva in modo asciutto, quasi a
monosillabi; era timido chiuso e nevrotico, un personaggio antieroico
come si presenta lui stesso in un autoritratto col cappello, con un
viso inespressivo da uomo che si può incontrare ogni giorno e
dimenticare subito dopo. Di lui fu scritto che nessuno era più
sicuro della realtà dei fatti e meno convinto del loro valore.
Scapolo fino ad oltre quarant’anni, si sposò nel 1924 con
Josephine Verstille Nivison, una pittrice che sarebbe stata per il
resto della vita la sua segretaria e la sua unica modella e che
avrebbe condiviso la sua vita di recluso, rinunciando a malincuore
anche alla propria creatività, cui era soprattutto contrario il
marito: “Non è bello avere una moglie che dipinge?” – gli
aveva chiesto una volta lei – “Puzza” lui le aveva risposto.
Ci sono rimasti i diari di Jo, che raccontano di un’unione non
facile: lei era estroversa e curiosa, lui chiuso, indolente e
solitario, un “cencio senza consapevolezza”. Arrivarono alle
percosse reciproche, graffi, morsi, pugni e ceffoni; ciò nonostante
non si lasciarono mai e nel loro venticinquesimo anniversario di
matrimonio Hopper realizzò uno stemma che rappresentava il loro
matrimonio attraverso un mestolo e un mattarello, simbolo di quella
strana coppia che campava di amore e violenza domestica.
L’arte
di Edward Hopper ebbe successo solo dopo il 1924, periodo dopo il
quale rafforza sempre di più la sua coerenza figurativa: uno dei
suoi temi caratteristici è la rappresentazione di ambienti
inquadrati come se se fossero visti da un osservatore esterno.
Nascono così alcuni capolavori come “Finestre di notte”,
“Ufficio di notte”, “Stanza d’albergo” o il notissimo
“Nottambuli” (Nighthawks), quadro da lui molto amato. Nonostante
raffigurasse scene del suo paese rifiutò sempre l’appellativo di
“pittore della realtà americana”, affermando che non voleva
dipingere quello che vedeva ma solo ciò che provava; allo stesso
modo non accettò che gli dicessero che i suoi quadri riflettevano
l’isolamento della vita moderna, sostenendo che gli interessavano
di più la luce e i colori. Sappiamo che non si metteva in posa
davanti a un soggetto, ma che piuttosto raccoglieva le sue
impressioni in numerosi schizzi, e che reinventava la realtà a suo
modo, inserendovi elementi presi da diversi posti che aveva
osservato. Quando dipinse “Gas” immagine notturna di una pompa di
benzina – forse la prima rappresentazione artistica di una stazione
di servizio – dichiarò che il posto non esisteva ma che se l’era
inventato dopo averne osservate parecchie.
Si
era costruito una casetta a Massachusetts Bay dove passò ogni estate
assieme a Josephine. Gli piacevano la luce molto intensa, le coste
spazzate dal vento, le rocce, l’oceano, i fari e le rare case dai
tetti a punta e dalle pareti bianche. Non smise mai di abbandonare lo
studio della luce e non a caso nel titolo dei dipinti eseguiti tra
gli anni Cinquanta e Sessanta compare spesso la parola “sole”.
L’ultimo lavoro, prima di spegnersi ormai ottantacinquenne a New
York, rappresenta lui e sua moglie come due attori sul palcoscenico
di un teatro mentre – a fine rappresentazione - si inchinano di
fronte al pubblico, un modo ironico di abbandonare la commedia della
vita. Jo Hopper morì dieci mesi dopo il marito, lasciando in eredità
al Whitney Museum of Modern Art di New York più di tremila lavori
fra dipinti, disegni, acquerelli e stampe.
Fonti: Elena Pontiggia,
Hopper, I Classici dell’arte, Rizzoli-Skira
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