giovedì 21 settembre 2017

Innamorati, mucche e violinisti volanti: la vita di Chagall

Ci sono mucche in America?”: questa l'apparentemente ingenua domanda che il grande pittore ebreo Marc Chagall rivolse - nella Francia occupata dai nazisti - a Varian Fry, giornalista e intellettuale americano che era in Europa con l'incarico di salvare esuli, artisti, intellettuali antinazisti e antifascisti ricercati dalle polizie segrete, offrendo loro la possibilità di fuggire dall'altra parte dell'oceano Atlantico. L'artista non era uno sciocco, ma si affidava semplicemente alla sua immaginazione che lo teneva ancorato alla sua terra e cultura d'origine, rappresentata in centinaia di opere durante la sua lunghissima vita. Era nato sotto gli zar in una comunità di ebrei a Vitesbk, una cittadina attualmente parte della Bielorussia, ed era figlio di un venditore di aringhe e di una commerciante. Una famiglia modesta, numerosa e molto religiosa che – come insegnava la loro particolare dottrina, il Chassidismo, una versione popolare della Kabbalah – perseguiva una spiritualità semplice e accessibile alla gente comune per cui tutta la creazione è soffusa di divinità e perfino le azioni della vita quotidiana possono essere santificate dal sentimento e dalla pietà.

Gli ebrei nella Russia di fine Ottocento ammontavano ad oltre 5 milioni di persone; nonostante ciò erano soggetti a limitazioni e perfino persecuzioni, i pogrom, che turbarono anche l'infanzia di Chagall, che aveva appena visto la luce quando il villaggio fu devastato dai cosacchi, costringendo la madre alla fuga mentre era ancora affaticata dal parto (riferendosi a quell'episodio il pittore avrebbe detto più tardi:”Io sono nato morto”). La piccola comunità tuttavia si riservava anche momenti di gioia, feste e ritualità tra sacro e profano che lasciarono un traccia profonda nell'opera dell'artista, che si portò sempre dietro il ricordo del suo paese natale tratteggiandolo in figure simboliche ricorrenti: oltre alle case e ai tetti, la mucca, una metafora del nutrimento e della fertilità, il gallo, annunciatore della luce del giorno, l'albero, l'aringa - che gli ricordava il lavoro del padre – i candelieri, collegati alle feste ebraiche dello Shabbat o di Hannukka, la finestra aperta e il cavallo, ossia il bisogno di libertà, l'orologio a pendolo, simbolo del tempo che passa. Ma soprattutto il violinista - che a Vitesbk accompagnava momenti cruciali della vita come la nascita, il matrimonio, la morte, un personaggio errante come sarebbe stato l'artista durante quasi tutta la sua esistenza. Il tutto utilizzando dimensioni arbitrarie e in assenza di prospettiva, ignorando spazio e tempo, in un mescolarsi delle cose, delle persone, degli animali e delle piante.
Marc Chagall – che in realtà si chiamava Moishe Segal – iniziò molto precocemente a mostrare interesse per l'arte figurativa, in contraddizione con i precetti dell'Antico Testamento che vietavano l'uso di immagini. Dapprima contrariati e sconcertati, alla fine i familiari dovettero cedere e permisero al ragazzo di frequentare una locale scuola di pittura, per spedirlo poi appena ventenne a San Pietroburgo dove si iscrisse all'Accademia di Belle Arti. Non fu un periodo facile: per soggiornare in città gli ebrei dovevano ottenere un permesso speciale, senza contare il divieto di circolare alla sera che lui infranse prendendosi un mucchio di botte e due settimane di galera; in compenso la città era piena di stimoli culturali e di grandi personalità, tra cui Léon Bakst, uno scenografo e costumista che si era accostato al simbolismo ed ebbe una notevole influenza sugli artisti contemporanei. L'universo iconografico di Chagall si sviluppò proprio in questi anni, anche se si accorse ben presto che la Russia gli stava stretta: se Bakst aveva studiato a Parigi fu lì che nel 1910 il giovane decise di andare per approfondire la sua conoscenza dei grandi movimenti dell'avanguardia europea come Fauvismo, Espressionismo, Cubismo, Astrattismo, Dada, Surrealismo. Sulle rive della Senna si respirava un'aria di libertà che il piccolo ebreo non si era mai sognato di annusare in patria, ma nonostante la ricchezza dei fermenti culturali con cui venne a contatto, non ne rimase influenzato che superficialmente, dal momento che continuò imperterrito a dipingere scene della vita di Vitebsk e storie della tradizione chassidica.

Se il suo cuore era rimasto sulle rive del fiume Moscova c'era un altro motivo. Prima di partire aveva infatti conosciuto Bella Rosenfeld, studentessa di lettere prima, scrittrice poi, ma soprattutto in perfetta sintonia con le idee di Chagall che di lei avrebbe detto:”Bella scriveva come viveva, come amava, come accoglieva gli amici. Le sue parole, le sue frasi, sono una patina di colore sulla tela”. Fu amore a prima vista, coronato dal matrimonio nel 1915, al ritorno da Parigi, nonostante i genitori di lei - agiati commercianti di gioielli – non fossero d'accordo; finché Bella visse fu la sua musa e ispiratrice e la protagonista di quadri famosi in cui spesso una coppia di innamorati si abbraccia librandosi e fluttuando sopra i tetti della città, attirati dalle nuvole e dal blu profondo del cielo (il famoso blu Chagall). La coppia sarebbe dovuta ripartire per la Francia, ma lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e la rivoluzione che portò al rovesciamento dell'impero zarista cambiarono il corso delle cose. Dapprima l'artista aderì con entusiasmo al comunismo, che riconosceva agli ebrei pari diritti di cittadinanza; fu nominato dal ministro sovietico della Cultura Commissario dell'arte nella regione di Vitebsk, ma iniziò ben presto a scontrarsi coi principi propugnati dal nuovo regime che, per ragioni politiche e propagandistiche, preferiva un robusto realismo più adatto allo scopo di rieducare le masse alle nuove idee: nella sua biografia infatti Chagall ricorda di essersi sentito apertamente chiedere cosa avevano a che vedere con Marx ed Engels le sue mucche verdi e i cavalli volanti, domanda che nessun parigino si sarebbe mai sognato di fargli. Sopportò per qualche anno quella situazione poi se ne ritornò in Francia con la moglie e la bambina che era nata nel frattempo.

Aveva maturato l'idea di essere un eterno errabondo e lo lasciò scritto: “Mia soltanto è la patria della mia anima. Vi posso entrare senza passaporto e mi sento a casa; essa vede la mia tristezza e la mia solitudine ma non vi sono case: furono distrutte durante la mia infanzia, i loro inquilini volano nell'aria in cerca di una casa, vivono nella mia anima”.
La sua vita non doveva ancora avere pace. In Francia aveva ritrovato l'universo figurativo giovanile che aveva arricchito aggiungendo ai suoi quadri le icone della Torre Eiffel e della facciata di Notre-Dame, aveva ottenuto la cittadinanza e approfittato della libertà per viaggiare: in Spagna, in Olanda, in Italia, in Gran Bretagna, ma anche in Palestina, dove aveva dipinto il Muro del pianto. Era ormai famoso e quotato e si era lasciato alle spalle la povertà, ma nuove e gravi preoccupazioni sopraggiunsero con l'ascesa del nazismo che, oltre all'odio per gli ebrei, propugnava un'arte che rifiutava le “degenerazioni” delle avanguardie e voleva esaltare l'eroismo della razza ariana. Tra i pittori bollati c'era naturalmente Chagall, i cui quadri furono bruciati in Germania assieme a quelli di artisti come Klee, Kandinskij. Otto Dix, George Grosz e alle opere di Freud; in risposta l'artista dipinse “La crocifissione bianca” in cui vengono accomunate le sofferenze di Cristo, innocente e condannato in maniera ingiusta, e quelle del popolo ebraico, anch'esso vittima incolpevole.

Nel 1940 Hitler occupò la Francia e il pittore e la sua famiglia dovettero emigrare in America. Nonostante qui ritrovasse parecchi vecchi amici che erano scappati come lui dall'Europa, Chagall fece fatica ad ambientarsi nel nuovo mondo perché troppo angoscianti erano le notizie che provenivano dal vecchio continente: la guerra, l'invasione della Russia da parte dei tedeschi, lo sterminio degli ebrei, furono il soggetto di alcune drammatiche tele dai toni cupi dipinte negli anni Quaranta. Le commissioni però non gli mancavano: gli fu richiesto di realizzare scene e costumi per “Aleko”, balletto musicato da Ciajkovskij e lavoro adatto alle sue corde: fin dalla giovinezza infatti il pittore era sempre stato affascinato dal circo e dal teatro, amore che non lo abbandonerà mai e che lo porterà anche a realizzare negli anni Sessanta gli affreschi della cupola dell'Opéra Garnier a Parigi. Non riuscì tuttavia a rifarsi una vita perché la morte di Bella dopo una breve malattia lo fece sprofondare in una cupa depressione che gli impedì di dipingere per un anno. Come nella tradizione ebraica era usanza voltare gli specchi contro il muro durante il lutto, così fece con tutti i suoi quadri e, quando – anche grazie all'aiuto della figlia Ida e degli amici - riuscì a riprendere in mano i pennelli dopo quel terribile periodo, la sua donna scomparsa e la sua terra devastata e distrutta rimasero per sempre nelle sue tele nella dimensione del ricordo.

Avrebbe avuto altre due donne: Virginia Haggart McNeill, da cui ebbe un figlio, ma con cui non riuscì a ritrovare le affinità che aveva con la prima moglie e, al ritorno in Francia, Valentine Brodskij, detta “Vava”, russa ed ebrea come lui, che sarebbe diventata la compagna della sua vecchiaia. Alla fine della guerra la coppia si era stabilita a Saint-Paul-de-Vence in Costa azzurra. Qui Valentine lo incoraggiò ad affrontare anche il disegno di vetrate di cui produsse una serie, tra cui le più importanti sono quelle per la cattedrale di Notre-Dame a Reims, per quella di Metz, per la sede delle Nazioni Unite e la Sinagoga di Gerusalemme. In queste opere il pittore completò un suo personale viaggio all'interno della Bibbia, in cui ripescava i grandi temi dell'Antico Testamento che ben conosceva e che troveranno in seguito un ulteriore spazio espositivo nel Musée National Message Biblique di Nizza, realizzato mentre l'artista era ancora in vita. 

La notevolissima produzione di Chagall ormai spaziava in ogni campo: oltre che alla pittura e al vetro, si dedicò all'incisione, al mosaico, all'arazzo, all'affresco, alla ceramica e perfino alla scultura. Rimase sempre un originale: non aveva fondato scuole né aveva seguaci e lavorava in modo accanito, completamente nudo, perché non gli interessavano minimamente la moda e i vestiti. Si comportò così fino al giorno prima della sua morte, a 97 anni. Volle farsi seppellire nel cimitero cristiano della cittadina in contrasto col rabbino della sua comunità forse per rimarcare – lui che era sempre stato un apolide – il sogno di un'umanità unita e compassionevole al di là delle differenze di razza e religione.

Fonti:
Federica Tammarazio: Chagall, la vita e l'arte. Rizzoli, Skira

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