venerdì 22 settembre 2017

Il fascino pericoloso del ponte

Attraversare un ponte formato da una lunghissima spada: questa la prova più difficile che Lancillotto dovette affrontare per entrare nel regno di Gorre e liberare l'amata regina Ginevra dalle grinfie del perfido Méléagant. Il pericolo era duplice: ferirsi mortalmente con la lama e precipitare nel fiume: “d'acqua traditrice, nera e rumoreggiante, densa e scura orrida e spaventosa come un fiume dell'inferno, tanto pericolosa e profonda che chi vi fosse caduto si sarebbe sicuramente perso”. Questa è la paurosa rappresentazione che Chrétien de Troyes fa dell'unica via di passaggio a disposizione dell'eroe il quale - sprezzante del dolore –si toglie l'armatura e tagliuzzandosi sulla lama passa dall'altra parte, malconcio ma vittorioso. Il poeta francese, vissuto nella seconda metà del XII secolo, quando descrive il “ponte della spada” non parla evidentemente di una costruzione reale ma allude a una metafora: l'eroe può raggiungere il suo scopo solo superando una prova rischiosissima.
Lo stesso tema lo si ritrova nelle tradizioni esoteriche dell'antica Cina dove il viaggio iniziatico verso la conoscenza si compiva attraversando ponti di metallo che alludevano a segrete operazioni alchemiche. La tradizione islamica invece narra di come per giungere al paradiso si debba effettuare lo Sirât, l'attraversamento di un ponte sottile come un capello che solo gli eletti riusciranno a superare laddove i dannati verranno precipitati all'inferno. Ma ci sono ulteriori significati da esaminare: i ponti uniscono Cielo e Terra, il Divino col Mortale come il Bifröst della mitologia scandinava formato da un arcobaleno che arriva fino al mondo degli dei. Costruire un ponte nell'antichità era inoltre considerata una profanazione delle acque, cariche di valenze sacrali, e forse per questo quando i romani si accinsero a realizzare il primo ponte sul divino Tevere - il Sublicio, interamente in legno - lo affidarono al Pontifex Maximus (da cui deriva il nome del Pontefice cristiano) l'unico autorizzato alla sua manutenzione e che ogni anno placava la collera del fiume gettandoci dentro ventisette fantocci di giunchi, probabile ricordo di sacrifici ben più cruenti.
Qualcuno dirà: sono solo vecchie storie. Ma il fascinoso simbolo del ponte compare spesso nei sogni dell'uomo moderno a dimostrazione della sua innegabile vitalità: superare un ostacolo tra due mondi, unire aspetti contrastanti, attraversare un posto pericoloso da cui rischiamo di precipitare. Alcuni periodi della vita sono – come i ponti - passaggi da uno stato all'altro (nascita, infanzia, adolescenza, maturità, vecchiaia e morte) che comportano momenti di crisi e di riadattamento a nuove situazioni, come se ci incamminassimo verso terre inesplorate.
Naturalmente i ponti sono anche opere di architettura e ingegneria, e al giorno d'oggi meravigliose e arditissime costruzioni che sono meta del turismo di massa (a ulteriore dimostrazione che l'immagine del ponte è tuttora capace di emozionare): il Phiton Bridge ad Amsterdam, il pedonale Henderson Waves a Singapore, il Zhivopisny a Mosca, il Tianjin bridge in Cina - l'unico munito di ruota panoramica – e infine il più lungo di tutti, quasi quattro chilometri, l'Akashi Kaikyō in Giappone. Ma non è di questo che qui si vuole parlare, semmai di quelli che affondano la loro tradizione nella storia e in diversi casi nella leggenda.
Possiamo pensare che i primi cacciatori e raccoglitori umani utilizzassero tronchi di legno o liane intrecciate per passare attraverso torrenti o burroni, ma la necessità di costruire più robuste strutture in muratura si fece sentire abbastanza presto se Erodoto racconta che esisteva un ponte in pietra che a Babilonia congiungeva le due rive dell'Eufrate.
Attraversare un grande fiume non doveva essere una questione facile a quei tempi, e infatti quando si doveva portare un esercito da una sponda all'altra si ricorreva ad otri gonfiati d'aria a cui si aggrappavano i soldati, manovra ripresa anche da Alessandro Magno per varcare il Danubio. In Italia dobbiamo i primi ponti agli etruschi, che i romani detestavano al punto da finire per cancellarli dalla faccia della terra, non senza avergli prima copiato la fondamentale invenzione architettonica dell'arco. Nella sua conquista dell'Europa, del Nord Africa e del Medio Oriente Roma disseminò di strade e ponti tutto l'impero, eseguiti con tale maestria che molti sono tuttora esistenti e in funzione; Giulio Cesare ne volle addirittura edificare uno in legno sul Reno, cosa che gli riuscì in una decina di giorni, e solo per dimostrare ai Germani quanto lui fosse bravo e potente. I barbari impressionati se la diedero a gambe e poco dopo il proconsole fece distruggere il suo capolavoro, mentre storici e archeologi sono ancora lì che si chiedono come abbia fatto a realizzarlo in così poco tempo e su un fiume come il Reno, non proprio un ruscello. E' noto che i romani furono ingegneri eccezionali: riuscirono a costruire il sistema delle fondazioni sott'acqua e con Traiano arrivarono a fabbricare un ponte sul Danubio - oggi purtroppo distrutto - lungo più di un chilometro e dotato di venti arcate.

Nel medioevo la competenza dei costruttori di ponti non venne meno, ma in un'epoca superstiziosa in cui chiese e cattedrali si affollavano di figure mostruose, e i bestiari si popolavano di draghi ed animali fantastici, la messa in opera di questo tipo di manufatto fu attribuita quasi esclusivamente al Demonio, i cui servizi si moltiplicarono spinti da una fortissima domanda. Dal 1000 al 1600 circa sorsero in tutta Europa moltissimi Ponti del Diavolo, tutti associati a leggende praticamente simili: un muratore o un architetto fortemente in ritardo scende a patti col diavolo che gli promette di costruirgli il ponte in una notte, purché gli venga ceduta la prima anima che lo oltrepasserà. Il mattino dopo l'astuto artigiano farà attraversare un animale (di solito una capra o un cane, i gatti son troppo furbi) e il maligno resterà gabbato. Anche qui il ponte allude a una situazione pericolosa che terminerà con la sconfitta del male come agente di divisione (il significato della parola “diavolo” deriva dal verbo greco “dia-bàllein”, che significa “separare, creare fratture”). Molti ponti antichi e moderni sono inoltre associati a storie sinistre: il loro ben visibile stato di luogo di passaggio permetteva di esporre come monito alla popolazione le teste dei giustiziati o di impiccarvi qualche malcapitato: è il caso di ponte Sant'Angelo a Roma o di quello di Teramo, detto in dialetto de “li impisi”. Le esecuzioni sui ponti sono andate avanti fino al giorno d'oggi: nel 1992 quello bosniaco di Višegrad sulla Drina fu il testimone silenzioso di una spietata pulizia etnica e ancor più di recente una presunta spia irachena è stata impiccata dall'Isis al ponte di Fallujah.
Una novità medievale furono costruzioni fiancheggiate da case e botteghe, come il Ponte Vecchio a Firenze dove anticamente il governo cittadino volle collocare il mercato della carne che, tra banchi di lombate, costate, ossa e frattaglie malamente conservate, doveva puzzare un bel po' e quindi essere allontanato dalle sensibili narici dei fiorentini. Ponti di questo tipo sorsero un po' dappertutto, anche perché nelle città circondate da mura lo spazio a disposizione per costruire diventava sempre più scarso man mano che la cittadinanza infittiva. Se in Francia ce n'erano ben trentacinque – tre anche a Parigi, sull'Ile de la cité - il ponte abitato più famoso di tutti fu il London Bridge, edificato tra il 1176 e il 1209 e da non confondersi con l'attuale Tower Bridge, molto più tardo. Munito di ruote idrauliche e cancelli che venivano chiusi durante il coprifuoco, il ponte di Londra arrivò a contenere fino a 200 attività commerciali, numerosi appartamenti e perfino una cappella dedicata al santo e martire Thomas Becket. Anche qui c'era l'abitudine di esibire sulle picche le teste mozzate dei traditori, che venivano bollite e incatramate per proteggerle e prolungare il macabro spettacolo; molti crani famosi dondolarono dal ponte, tra cui quelli del ribelle William Wallace (avete mai visto Braveheart?) e del cancelliere e umanista Thomas More che aveva ostacolato il matrimonio di Enrico VIII con Anna Bolena. Con la modernizzazione ottocentesca il London Bridge, stretto, scomodo e soggetto a crolli e incendi, fu abbattuto e sostituito, cosa che giovò al traffico ma fece perdere la testimonianza indimenticabile d'un pezzo di storia inglese.


Sporgersi dalla spalletta di un ponte e guardare sotto può essere uno spettacolo emozionante: è quello che succede quando ci si affaccia dal ponte di Ronda, vicino a Malaga, che unisce la città vecchia a quella nuova, passando su una gola profonda fino a 120 metri, detta “El Tajo”, causata dall'erosione del fiume Guadalevin. Se si vuole invece intraprendere una traversata alla Indiana Jones occorre andare in oriente dove esistono ponti sospesi fatti di bambù o di instabili e tarlate assi di legno come quello lunghissimo di Hussaini, in Pakistan, retto solo da corde e considerato il più pericoloso del mondo. 
Il più alto invece si trova in Cina sulla Huangshan (letteralmente Montagna gialla), una serie di picchi famosi per le bellezze paesaggistiche, la stranezza delle formazioni rocciose, e gli straordinari giochi di luce dovuti alla presenza di nubi che spesso circondano le vette. Il ponte, detto “degli immortali” è a ottocento metri di altezza e congiunge due speroni di roccia: il luogo, che fa parte di un percorso turistico mozzafiato, quando sale la bruma assume un aspetto fiabesco e misterioso,facendo dimenticare che la costruzione è del secolo scorso anche se falsificata con un parapetto in stile cinese antico.

Fonti:

giovedì 21 settembre 2017

Innamorati, mucche e violinisti volanti: la vita di Chagall

Ci sono mucche in America?”: questa l'apparentemente ingenua domanda che il grande pittore ebreo Marc Chagall rivolse - nella Francia occupata dai nazisti - a Varian Fry, giornalista e intellettuale americano che era in Europa con l'incarico di salvare esuli, artisti, intellettuali antinazisti e antifascisti ricercati dalle polizie segrete, offrendo loro la possibilità di fuggire dall'altra parte dell'oceano Atlantico. L'artista non era uno sciocco, ma si affidava semplicemente alla sua immaginazione che lo teneva ancorato alla sua terra e cultura d'origine, rappresentata in centinaia di opere durante la sua lunghissima vita. Era nato sotto gli zar in una comunità di ebrei a Vitesbk, una cittadina attualmente parte della Bielorussia, ed era figlio di un venditore di aringhe e di una commerciante. Una famiglia modesta, numerosa e molto religiosa che – come insegnava la loro particolare dottrina, il Chassidismo, una versione popolare della Kabbalah – perseguiva una spiritualità semplice e accessibile alla gente comune per cui tutta la creazione è soffusa di divinità e perfino le azioni della vita quotidiana possono essere santificate dal sentimento e dalla pietà.

Gli ebrei nella Russia di fine Ottocento ammontavano ad oltre 5 milioni di persone; nonostante ciò erano soggetti a limitazioni e perfino persecuzioni, i pogrom, che turbarono anche l'infanzia di Chagall, che aveva appena visto la luce quando il villaggio fu devastato dai cosacchi, costringendo la madre alla fuga mentre era ancora affaticata dal parto (riferendosi a quell'episodio il pittore avrebbe detto più tardi:”Io sono nato morto”). La piccola comunità tuttavia si riservava anche momenti di gioia, feste e ritualità tra sacro e profano che lasciarono un traccia profonda nell'opera dell'artista, che si portò sempre dietro il ricordo del suo paese natale tratteggiandolo in figure simboliche ricorrenti: oltre alle case e ai tetti, la mucca, una metafora del nutrimento e della fertilità, il gallo, annunciatore della luce del giorno, l'albero, l'aringa - che gli ricordava il lavoro del padre – i candelieri, collegati alle feste ebraiche dello Shabbat o di Hannukka, la finestra aperta e il cavallo, ossia il bisogno di libertà, l'orologio a pendolo, simbolo del tempo che passa. Ma soprattutto il violinista - che a Vitesbk accompagnava momenti cruciali della vita come la nascita, il matrimonio, la morte, un personaggio errante come sarebbe stato l'artista durante quasi tutta la sua esistenza. Il tutto utilizzando dimensioni arbitrarie e in assenza di prospettiva, ignorando spazio e tempo, in un mescolarsi delle cose, delle persone, degli animali e delle piante.
Marc Chagall – che in realtà si chiamava Moishe Segal – iniziò molto precocemente a mostrare interesse per l'arte figurativa, in contraddizione con i precetti dell'Antico Testamento che vietavano l'uso di immagini. Dapprima contrariati e sconcertati, alla fine i familiari dovettero cedere e permisero al ragazzo di frequentare una locale scuola di pittura, per spedirlo poi appena ventenne a San Pietroburgo dove si iscrisse all'Accademia di Belle Arti. Non fu un periodo facile: per soggiornare in città gli ebrei dovevano ottenere un permesso speciale, senza contare il divieto di circolare alla sera che lui infranse prendendosi un mucchio di botte e due settimane di galera; in compenso la città era piena di stimoli culturali e di grandi personalità, tra cui Léon Bakst, uno scenografo e costumista che si era accostato al simbolismo ed ebbe una notevole influenza sugli artisti contemporanei. L'universo iconografico di Chagall si sviluppò proprio in questi anni, anche se si accorse ben presto che la Russia gli stava stretta: se Bakst aveva studiato a Parigi fu lì che nel 1910 il giovane decise di andare per approfondire la sua conoscenza dei grandi movimenti dell'avanguardia europea come Fauvismo, Espressionismo, Cubismo, Astrattismo, Dada, Surrealismo. Sulle rive della Senna si respirava un'aria di libertà che il piccolo ebreo non si era mai sognato di annusare in patria, ma nonostante la ricchezza dei fermenti culturali con cui venne a contatto, non ne rimase influenzato che superficialmente, dal momento che continuò imperterrito a dipingere scene della vita di Vitebsk e storie della tradizione chassidica.

Se il suo cuore era rimasto sulle rive del fiume Moscova c'era un altro motivo. Prima di partire aveva infatti conosciuto Bella Rosenfeld, studentessa di lettere prima, scrittrice poi, ma soprattutto in perfetta sintonia con le idee di Chagall che di lei avrebbe detto:”Bella scriveva come viveva, come amava, come accoglieva gli amici. Le sue parole, le sue frasi, sono una patina di colore sulla tela”. Fu amore a prima vista, coronato dal matrimonio nel 1915, al ritorno da Parigi, nonostante i genitori di lei - agiati commercianti di gioielli – non fossero d'accordo; finché Bella visse fu la sua musa e ispiratrice e la protagonista di quadri famosi in cui spesso una coppia di innamorati si abbraccia librandosi e fluttuando sopra i tetti della città, attirati dalle nuvole e dal blu profondo del cielo (il famoso blu Chagall). La coppia sarebbe dovuta ripartire per la Francia, ma lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e la rivoluzione che portò al rovesciamento dell'impero zarista cambiarono il corso delle cose. Dapprima l'artista aderì con entusiasmo al comunismo, che riconosceva agli ebrei pari diritti di cittadinanza; fu nominato dal ministro sovietico della Cultura Commissario dell'arte nella regione di Vitebsk, ma iniziò ben presto a scontrarsi coi principi propugnati dal nuovo regime che, per ragioni politiche e propagandistiche, preferiva un robusto realismo più adatto allo scopo di rieducare le masse alle nuove idee: nella sua biografia infatti Chagall ricorda di essersi sentito apertamente chiedere cosa avevano a che vedere con Marx ed Engels le sue mucche verdi e i cavalli volanti, domanda che nessun parigino si sarebbe mai sognato di fargli. Sopportò per qualche anno quella situazione poi se ne ritornò in Francia con la moglie e la bambina che era nata nel frattempo.

Aveva maturato l'idea di essere un eterno errabondo e lo lasciò scritto: “Mia soltanto è la patria della mia anima. Vi posso entrare senza passaporto e mi sento a casa; essa vede la mia tristezza e la mia solitudine ma non vi sono case: furono distrutte durante la mia infanzia, i loro inquilini volano nell'aria in cerca di una casa, vivono nella mia anima”.
La sua vita non doveva ancora avere pace. In Francia aveva ritrovato l'universo figurativo giovanile che aveva arricchito aggiungendo ai suoi quadri le icone della Torre Eiffel e della facciata di Notre-Dame, aveva ottenuto la cittadinanza e approfittato della libertà per viaggiare: in Spagna, in Olanda, in Italia, in Gran Bretagna, ma anche in Palestina, dove aveva dipinto il Muro del pianto. Era ormai famoso e quotato e si era lasciato alle spalle la povertà, ma nuove e gravi preoccupazioni sopraggiunsero con l'ascesa del nazismo che, oltre all'odio per gli ebrei, propugnava un'arte che rifiutava le “degenerazioni” delle avanguardie e voleva esaltare l'eroismo della razza ariana. Tra i pittori bollati c'era naturalmente Chagall, i cui quadri furono bruciati in Germania assieme a quelli di artisti come Klee, Kandinskij. Otto Dix, George Grosz e alle opere di Freud; in risposta l'artista dipinse “La crocifissione bianca” in cui vengono accomunate le sofferenze di Cristo, innocente e condannato in maniera ingiusta, e quelle del popolo ebraico, anch'esso vittima incolpevole.

Nel 1940 Hitler occupò la Francia e il pittore e la sua famiglia dovettero emigrare in America. Nonostante qui ritrovasse parecchi vecchi amici che erano scappati come lui dall'Europa, Chagall fece fatica ad ambientarsi nel nuovo mondo perché troppo angoscianti erano le notizie che provenivano dal vecchio continente: la guerra, l'invasione della Russia da parte dei tedeschi, lo sterminio degli ebrei, furono il soggetto di alcune drammatiche tele dai toni cupi dipinte negli anni Quaranta. Le commissioni però non gli mancavano: gli fu richiesto di realizzare scene e costumi per “Aleko”, balletto musicato da Ciajkovskij e lavoro adatto alle sue corde: fin dalla giovinezza infatti il pittore era sempre stato affascinato dal circo e dal teatro, amore che non lo abbandonerà mai e che lo porterà anche a realizzare negli anni Sessanta gli affreschi della cupola dell'Opéra Garnier a Parigi. Non riuscì tuttavia a rifarsi una vita perché la morte di Bella dopo una breve malattia lo fece sprofondare in una cupa depressione che gli impedì di dipingere per un anno. Come nella tradizione ebraica era usanza voltare gli specchi contro il muro durante il lutto, così fece con tutti i suoi quadri e, quando – anche grazie all'aiuto della figlia Ida e degli amici - riuscì a riprendere in mano i pennelli dopo quel terribile periodo, la sua donna scomparsa e la sua terra devastata e distrutta rimasero per sempre nelle sue tele nella dimensione del ricordo.

Avrebbe avuto altre due donne: Virginia Haggart McNeill, da cui ebbe un figlio, ma con cui non riuscì a ritrovare le affinità che aveva con la prima moglie e, al ritorno in Francia, Valentine Brodskij, detta “Vava”, russa ed ebrea come lui, che sarebbe diventata la compagna della sua vecchiaia. Alla fine della guerra la coppia si era stabilita a Saint-Paul-de-Vence in Costa azzurra. Qui Valentine lo incoraggiò ad affrontare anche il disegno di vetrate di cui produsse una serie, tra cui le più importanti sono quelle per la cattedrale di Notre-Dame a Reims, per quella di Metz, per la sede delle Nazioni Unite e la Sinagoga di Gerusalemme. In queste opere il pittore completò un suo personale viaggio all'interno della Bibbia, in cui ripescava i grandi temi dell'Antico Testamento che ben conosceva e che troveranno in seguito un ulteriore spazio espositivo nel Musée National Message Biblique di Nizza, realizzato mentre l'artista era ancora in vita. 

La notevolissima produzione di Chagall ormai spaziava in ogni campo: oltre che alla pittura e al vetro, si dedicò all'incisione, al mosaico, all'arazzo, all'affresco, alla ceramica e perfino alla scultura. Rimase sempre un originale: non aveva fondato scuole né aveva seguaci e lavorava in modo accanito, completamente nudo, perché non gli interessavano minimamente la moda e i vestiti. Si comportò così fino al giorno prima della sua morte, a 97 anni. Volle farsi seppellire nel cimitero cristiano della cittadina in contrasto col rabbino della sua comunità forse per rimarcare – lui che era sempre stato un apolide – il sogno di un'umanità unita e compassionevole al di là delle differenze di razza e religione.

Fonti:
Federica Tammarazio: Chagall, la vita e l'arte. Rizzoli, Skira

mercoledì 20 settembre 2017

Imago mundi: viaggio fantastico in una mappa medievale

“Seconda stella a destra, questo è il cammino/e poi dritto fino al mattino/Poi la strada la trovi da te/porta all'isola che non c'è”: i versi e le note della canzone di Edoardo Bennato mi sembra accompagnino bene la descrizione della mappa di Hereford, un'antica pergamena dipinta nella seconda metà del XIII secolo e conservata nella cattedrale della città omonima. Questa straordinaria planimetria alta 1,53 e larga 1,33 rappresenta infatti assai più che una serie di luoghi fisici e di terre conosciute, ma il racconto fiabesco del mondo come era pensato nel medioevo, che non a caso servì di ispirazione a Tolkien per inventare la sua “Terra di mezzo”. Sappiamo anche il nome dell'autore, Richard di Haldingham, che si firmò – come usava all'epoca - chiedendo a tutti coloro che avevano conosciuto il suo lavoro di pregare Gesù per la sua anima. Richard non era un cartografo (figura professionale che non esisteva) ma un monaco inglese che voleva spiegare ai suoi lettori il globo terracqueo e le sue infinite varietà, ma soprattutto inserirvi un mucchio di storie della Bibbia con relative didascalie assieme a molte altre informazioni sui continenti rappresentati, sulle città e i monumenti e sulle strane popolazioni che li abitavano, senza escluderne l'immaginifica fauna; insomma, una vera e propria summa del sapere medievale. Possiamo considerare una fortuna che questo inestimabile documento sia giunto fino a noi attraverso difficili vicissitudini storiche: rimasta appesa nella cattedrale per più di settecento anni, fu nascosta sotto il pavimento durante la guerra civile del Seicento, per poi essere restaurata e recuperata sfuggendo ai disastri della Seconda Guerra mondiale, destino che non ebbe un altro famoso mappamondo medievale, quello di Ebstorf un capolavoro tedesco di tre metri e mezzo di diametro devastato da un bombardamento alleato.

La cartografia medievale risale a quella di Tolomeo, un greco alessandrino del II secolo a.C. autore della “Geografia”, opera arrivata a noi attraverso copie più tarde, che non voleva rappresentare l'intero globo, ma solo la parte abitata che lui chiamava Ecumene. Il cristianesimo sconvolse completamente le indicazioni tolemaiche: nelle nuove pergamene c'erano sì le zone popolate, uniche degne di essere descritte, ma il punto focale delle mappe era il Paradiso terrestre, luogo della cacciata dei progenitori, attorno a cui si sviluppava la terra circondata dal mare Oceano. Così la raffigurò un tal Cosma Indicopleuste, un mercante del VI secolo che aveva visitato l'India e che ci ha lasciato un curioso mappamondo che assomiglia a una valigia, anche se nell'intenzione voleva essere un tabernacolo. Dopo di lui l'enciclopedico vescovo spagnolo Isidoro di Siviglia abbandonò quella strana rappresentazione a scatola per creare una “Mappa mundi” che sarebbe stata copiata per gran parte del medioevo: un cerchio in cui era inscritta una T che suddivideva l'area in tre zone: in alto l'Asia, nelle porzioni inferiori l'Europa e l'Africa, mentre diametro e raggio raffiguravano le zone acquee. Le indicazioni geografiche e spaziali erano completamente arbitrarie perché l'intento di Isidoro non era tanto di trasmettere connotazioni fisiche, quanto didascaliche e teologiche. Nei suoi scritti e nelle illustrazioni che li accompagnano afferma che alla sua epoca esisteva già la consapevolezza che la terra fosse rotonda – ci avevano pensato i greci a cercare di misurarla - anche se la sua sfericità sarà provata solo secoli dopo, con la circumnavigazione di Ferdinando Magellano. Possedere una carta geografica era anche un simbolo di status sociale: papa Zaccaria ne volle una dipinta nel suo palazzo in Laterano, Carlomagno se ne procurò una in argento, Ruggero II d'Altavilla fece fare per la corte normanna una grande tavola larga tre metri poi fatta a pezzi durante una congiura di palazzo.
Lo schema di Hereford è desunto da Isidoro, dagli scritti di Plinio, dal geografo greco Strabone, dai santi Agostino e Girolamo, da antichi documenti romani come l'Itinerario Antonino, dallo storico Paolo Orosio, mentre le figure fantastiche sono una tipica creazione medievale, riprodotte in decine di esemplari sui portali delle chiese, sui capitelli, nelle miniature dei Bestiari. Né sono estranei l'influenza delle crociate, i viaggi in Terrasanta e la conoscenza data dalla maggior diffusione dei commerci a nord e a sud dell'Europa dopo la crescita dei comuni e il superamento del mondo chiuso del feudalesimo. Nella pergamena il globo rotondo è inscritto dentro una forma geometrica il cui lato superiore termina a punta. E' orientato secondo i punti cardinali mentre teste di animali sottolineano le direzione dei venti. Come da prassi il mondo è a testa in giù con l'Asia in cima (l'Oriente dove sorge il sole), sormontata dall'Eden e dalle immagini dei progenitori; Gerusalemme si trova al centro con Gesù crocifisso, e non poteva essere altrimenti in un'epoca radicalmente votata al tema della redenzione; la città santa infatti non era solo il luogo della Sua morte ma, secondo le scritture, anche quello della Sua seconda venuta. L'Europa, l'Occidente (il sole che tramonta) e il nord stanno a sinistra e in basso si aprono le Colonne d'Ercole, ritenute all'epoca un varco proibito “acciò che l'uom più oltre non si metta”, come ricorda anche Dante nella sua Commedia (Inferno, canto XXVI); l'Africa è posizionata di fronte a destra (il Meridione).

Dentro la cima triangolare si dispiega il giudizio universale con la classica suddivisione tra beati e dannati con angeli accoglienti coi primi e poco accomodanti coi secondi (“alzati e va all'inferno” dice uno di loro a un povero peccatore). Le scritte sono in parte in latino in parte in una sorta di dialetto franco-normanno; i colori scuriti dai secoli dovevano essere molto vivaci, col mar Mediterraneo in verde, i fiumi in azzurro, il mar Rosso color sangue senza contare alcune lettere in oro tra cui quelle disposte attorno al cerchio della terra che formano la parola latina “Mors”, con allusione alla precarietà della vita umana. Per il resto la pergamena è completamente decorata da illustrazioni in un'affascinante e onirica insalata medievale priva di distinzione fisica o temporale: si pongono sullo stesso piano luoghi della storia e della leggenda, il labirinto di Creta, la torre di Babele e Babilonia – “dalle grandi mura e dai cento cancelli” - l'accampamento di Alessandro Magno, Troia, Roma (il testo dice: “Roma caput mundi tiene le redini della sfera terrestre”), il faro di Alessandria da cui partono lingue di fuoco, Delfi col suo oracolo, la città di Parigi svettante di torri e pinnacoli e naturalmente quella di Hereford.
La parte più curiosa della mappa è forse rappresentata dalle creature viventi, in particolare dai numerosi mostriciattoli che popolano le terre più lontane da Gerusalemme. Fin dall'epoca di Sant'Agostino ci si chiedeva cosa ci fosse agli antipodi, dall'altra parte della terra: il vescovo di Ippona riteneva completamente assurda l'idea che potessero esistere uomini che calcavano la terra con la testa all'ingiù e i piedi all'insù; inoltre pensava che se i primi esseri umani erano stati creati nell'emisfero nord – come racconta la Bibbia – il resto del globo dovesse essere disabitato anche perché si supponeva che a sud si aprissero terribili zone torride e infuocate inadatte alla vita. Il mito tuttavia ha una forza di suggestione che poco può contro ragionamenti più o meno logici, e così il tema degli antipodi e dei suoi abitanti finì per ampliarsi lo stesso e l'immaginazione galoppò inserendo all'altro capo del mondo strani esseri umani e favolose creature animali. Gli umanoidi descritti non solo erano deformi né più né meno come ci immaginiamo un alieno dei giorni nostri, ma al contrario di questi ultimi non erano evoluti e decisamente inferiori, in una sorta di razzismo ante litteram.
Per citarne alcuni: l'Asia era abitata dagli Essedoni, che avevano l'abitudine di divorare i corpi dei loro genitori defunti; c'erano poi gli Sciapodi, dotati di un unico piedone grande quanto un ombrello per proteggersi dalla calura estiva, e ancora gli Ippopodi o uomini dai piedi equini; gli Arimaspi o Monocoli con un occhio solo sono rappresentati mentre lottano coi grifoni per accaparrarsi miniere d'oro e di diamanti. 

In india vive invece un terribile animale, la Manticora, entrata perfino nella letteratura moderna prosperando anche nei racconti fantasy e nei videogiochi: “ ha tre ordini di denti connessi come quelli di un pettine, faccia e orecchie d'uomo, occhi azzurri, corpo cremisi di leone, e coda terminante in aculeo come di scorpione” (Jorge Luis Borges, “Manuale di zoologia fantastica”). Simbolo nel medioevo di tirannia e invidia, la simpatica bestiola lancia micidiali spine velenose e si nutre di carne umana, ma assaggia anche altri animali eccetto l'elefante che è immune dai dardi tossici. Ha un canto seducente e armonioso con cui attira uomini, donne e bambini per divorarli, ma se le si taglia la coda da piccola diventa un innocuo cucciolotto che si può portare a spasso come un cane da compagnia.

Non è possibile qui fare l'elenco completo delle strane creature che popolano la mappa di Hereford: dai Cinocefali con la testa di cane, ai Blemmi africani privi di testa ma con occhi e bocca sul torace, ai Panozi dalle enormi orecchie pendenti usate a mo' di coperta al momento del sonno, mentre non mancano l'unicorno, la sirena e la lince, che come Superman ha la vista a raggi x che perfora i muri. Tutto sommato un mondo poco rassicurante che consiglierebbe al viaggiatore di restarsene a casa sua; l'unico posto dove si poteva vivere alla grande era Iperborea, una mitica terra circondata dall'oceano che già i greci situavano al nord, visitata dagli dei e popolata da gente fortunata che non conosceva la malattia e dove fioriva eternamente la primavera. In mancanza di guerre, di incidenti e di discussioni nessuno moriva a meno che – suggerisce Richard di Haldingham – non lo facesse in modo volontario buttandosi in mare da una roccia. Un vero paradiso, appunto un'isola con non c'è. 

Fonti:
Eliana Carrara, Popolazioni favolose, Enciclopedia dell'arte medievale, Treccani

martedì 19 settembre 2017

Gustav Klimt, tra oro e voluttà

Non si può certo dire che la famiglia di Gustav Klimt respirasse il clima dorato della “Felix Austria”, termine con cui prima della Guerra del 1915-18 veniva soprannominata la nazione al centro dell’impero austro-ungarico. Secondo dei sette figli di un orafo e incisore viennese che faceva fatica a sbarcare il lunario, Gustav aveva ricevuto come unica eredità il dono di una mano felicissima che gli aveva consentito di entrare con lode nella Scuola d’arte e mestieri, dove le materie insegnate avevano al centro lo studio dei maestri della classicità, ma anche e soprattutto le tecniche dell’affresco, della ceramica, del mosaico e della lavorazione del metallo di cui si appropriò con grande facilità. L’atmosfera di Vienna non era certo favorevole a una mente innovativa: dopo il 1870 la città aveva avuto un’espansione urbanistica fulminea che aveva portato alla costruzione di viali e palazzi monumentali, edifici pubblici e centri dedicati alla cultura, il tutto però in uno stile formale e ostile alle invenzioni della moderna tecnologia la cui impronta era inevitabilmente data da Francesco Giuseppe: fanatico dell’ordine e della conservazione, l’imperatore detestava l’automobile, il treno, il telefono, il gas e l’elettricità - opponendosi con tutte le sue forze a queste diavolerie moderne - ma garantendo in compenso al suo popolo la sicurezza e un tranquillizzante legame con il passato, perfettamente in sintonia con lo spirito borghese dei suoi sudditi.
Il giovane Klimt iniziò la sua carriera abbracciando con alcuni amici la pittura storica di moda in Austria: il gruppo ebbe così alcune commissioni prestigiose per il Burgtheater (teatro di corte) e il Kunsthistoriches Museum, dove le figure allegoriche che si rifacevano al rinascimento italiano soddisfecero pienamente le aspettative poco fantasiose del pubblico viennese. Il feeling tra lui e i suoi committenti fu però di breve durata perché da Parigi stava tirando un’aria nuova, che si esprimeva attraverso le sinuose curve dell'Art Nouveau e la poetica del Decadentismo: in opposizione al mito positivista dell’oggettività a tutti i costi e della scienza sperimentale come unica verità, esso percepiva la realtà come sfuggente, ambigua e misteriosa, in preda all’inquietudine dell’ignoto, mentre parallelamente Sigmund Freud – pubblicava i suoi Studi sull’isteria e “L’interpretazione dei sogni”. L’arte europea si andava così riempiendo di figure simboliche enigmatiche e conturbanti (sfingi, antiche divinità, immagini di morte e di sogno, donne dall’abbraccio letale) che spesso e volentieri traducevano in forma visibile le fantasie e le ossessioni erotiche dell’uomo contemporaneo. Il nuovo stile fu una folgorazione per Gustav Klimt, che in seguito avrebbe affermato:”Tutta l’arte è erotica” e che avrebbe lasciato una produzione vastissima di disegni di nudi femminili in pose decisamente esplicite. Fu lui l’anima principale del movimento della “Secessione viennese”, un gruppo di 19 artisti - tra pittori, grafici e architetti – che nel 1897 si staccarono dall’Accademia di Belle Arti per inventarsi una creatività non commerciale e quindi non banale, che trasmettesse una diversa e più profonda visione del mondo e che fece inevitabilmente gridare allo scandalo, appiccicando al pittore la fama di eretico, pornografo e ribelle.

Sembra che nelle nuove scelte stilistiche c’entrasse anche la complicata vita sentimentale di Gustav, che amava le donne e frequentava un notevole numero di amanti, ma rifiutò sempre di sposarsi. Nella pettegola Vienna si sussurrava che avesse almeno una dozzina di figli illegittimi e ci si scandalizzava perché nel suo studio circolavano parecchie modelle completamente svestite i cui movimenti gli erano d’ispirazione, mentre era noto che molte signore-bene si sarebbero concesse anche gratis pur di avere un ritratto da lui. La figura femminile fu al centro di tutta la sua arte, ma se si parla delle sue relazioni amorose il condizionale è d’obbligo. Era un uomo estremamente schivo e riservato che, anche dopo aver conseguito successo e ricchezza, continuò a vivere in maniera modesta e appartata standosene lontano dalle feste e dalla vita pubblica e lavorando molte ore al giorno con poche interruzioni. Sembra che fosse timido e ipocondriaco e nonostante abbia dovuto compiere qualche viaggio di studio all’estero, detestasse uscire dall’Austria e soprattutto usare il treno perché non era capace di orientarsi nelle stazioni e quasi si perse in quella di Firenze. 
Forse solo due amiche gli stettero particolarmente a cuore: Adele Bloch-Bauer, una signora della Vienna-bene ritratta più volte dall’artista, e soprattutto Emilie Flöge, una donna d’affari colta, raffinata e di successo, che si occupava della creazione di capi di moda che aderivano allo spirito della Secessione, e con cui pare ci fosse solo una relazione affettiva molto intensa ma platonica.
Lo stile per cui l’arte di Klimt è universalmente noto riecheggia i lavori di oreficeria del padre e l’ammirazione per i mosaici bizantini di Ravenna che vide personalmente e che lo colpirono molto: l’uso dell’oro puro in foglia, dell'argento o della carta dorata, e in taluni casi di smalti e pietre dure gli permetteva di rappresentare una realtà trasfigurata dove gli unici elementi naturalistici sono i volti, le mani e i piedi dei personaggi, mentre il resto dell'immagine è appiattito sul fondo da elementi decorativi spiraliformi, circolari, rettangolari. Il pittore non era tuttavia interessato tanto a un'idea di trascendenza spirituale quando a perseguire un elegante estetismo perfettamente in sintonia con l'Art Nouveau. Questa tecnica era particolarmente adatta alla rappresentazione di soggetti allegorici che avevano quasi sempre al centro la donna, vista come una creatura sensuale, appassionata, tenera, materna, minacciosa. Era interessato al binomio Amore e morte (Eros e Thanatos) ma non vedeva nel femminile solo il lato oscuro e divorante riconoscendone invece la superiorità nella creazione della vita e della bellezza.

La società viennese tuttavia non era dello stesso parere. Alla fine del XIX secolo Klimt era già sulla bocca di tutti per lo scandalo che suscitavano lavori come “Pesci d'oro”, un'associazione tra donna e acqua che fu accusata di oscenità a causa del carnoso sedere della figura in primo piano. L'apoteosi delle critiche fu tuttavia toccata dal “Fregio di Beethoven”, allestito per la XIV esposizione della Secessione, e in cui l'artista – senza cambiare né rotta né stile - volle rappresentare un tema caro al gruppo, la salvezza dell'umanità attraverso l'arte, includendovi numerose scene di nudo. Al centro degli attacchi fu soprattutto la parete con il tema delle forze ostili, dove un mostro in forma di gorilla è attorniato da alcune figure femminili di una magrezza scarnificata fiancheggiate da un opulento donnone dall'aria ambigua: “Una rappresentazione buona per una stanza da bagno femminile a Ninive” commentò la stampa, in un'epoca in cui l'antica Mesopotamia pareva il brodo di coltura di tutti i vizi. La sensualità dell'opera di Klimt lo escluse da moltissime commissioni pubbliche amareggiandolo. Cominciò a lamentarsi della sua mancanza di libertà e dell'ottusità dei burocrati che invadevano le scuole d'arte, della cecità del Ministero della cultura che si arrogava il diritto di decidere sui criteri espositivi e sulla qualità dei lavori e soprattutto - lui che era l'artista più rappresentativo della modernità austriaca – della vergognosa esclusione dal ruolo prestigioso di professore all'Accademia di Belle Arti. Si consolò con molte commissioni private - ritratti soprattutto – mentre l'unica opera che gli fu acquistata dallo Stato austriaco fu il famosissimo “Bacio” forse perché le sole parti scoperte dei due corpi teneramente allacciati su un prato fiorito erano il viso e i piedi nudi di lei. Appartengono allo “stile aureo” altre opere famose, come due figure di Giuditta, “Le tre età della vita”, “Danae” e “L'albero della vita” che fa parte di un vasto progetto decorativo per palazzo Stoclet a Bruxelles.

Attorno al 1910 la Belle Epoque stava languendo e con essa mutavano le tendenze artistiche che viravano ormai verso l'espressionismo. Klimt – che andava verso i cinquant'anni - venne a contatto con le opere di Van Gogh, Matisse, Toulouse-Lautrec, entrò in crisi e decise di rimettersi in discussione, abbandonando l'oro e abbracciando sempre più il ritratto e il paesaggio, alla ricerca di una modalità espressiva più spontanea, fatta di tonalità intense che risentono dell'influenza di Claude Monet. Non fece in tempo a maturare la nuova maniera: la sua carriera artistica si concluse nel 1918, a seguito di un attacco di cuore, nello stesso anno in cui cadeva definitivamente l'Impero Austro-Ungarico il cui rigido spirito conservatore aveva tenacemente combattuto.

Fonti:
Johannes Dobai, Federica Armiraglio, Klimt, RCS quotidiani

Edward Hopper, l’eremita della pittura americana

Chi ha visto Psycho di Alfred Hitchcock ricorderà la scena: la giovane e bella Marion Crane (Janet Leigh), scappando dopo aver rubato 40.000 dollari, si ripara da un violento acquazzone presso il Bates motel dove troverà una terribile morte. Il posto è situato proprio sotto una vecchia e sinistra casa vittoriana dove abitano il proprietario (Anthony Perkins) e la madre; una villa in stile neogotico munita di una torretta e di un portico di accesso. La lugubre e isolata abitazione non fu però inventata da Hitchcock, ma fu copiata da “La casa sulla ferrovia”, un dipinto americano del 1925. L’autore, Edward Hopper, è stato uno dei più grandi pittori statunitensi del XX secolo, fonte inesauribile di ispirazione per generazioni di cineasti: da George Stevens, a Robert Altman , a David Lynch, a Wim Wenders al nostro Dario Argento, solo per citarne alcuni. L’attrazione che Hopper ha esercitato sul mondo cinema fu reciproca. Nato nel 1882, l’artista aveva 13 anni quando furono proiettate sugli schermi le prime immagini in movimento, e lui stesso affermò più tardi che quando non era in vena di dipingere passava le sue settimane a vedere film, in particolare noir.

La sua fu una biografia senza particolari scossoni: era figlio di genitori piccolo-borghesi che, quando il ragazzo manifestò attitudini artistiche, non gli negarono gli studi ma lo fecero iscrivere prima a una scuola di illustratori per corrispondenza, poi alla New York School of Art. Il suo maestro, Robert Henri, spingeva i suoi allievi a guardare la realtà piuttosto che alla pittura di maniera che dominava all’inizio del Novecento, rifiutandone le rigide regole accademiche, ma senza dimenticare la lezione dei grandi maestri del passato e di pittori francesi come Degas e Manet. Fu inevitabile che una volta diplomato, Hopper compisse un viaggio a Parigi – sogno e meta di molti giovani artisti d’oltreoceano - per conoscere da vicino gli impressionisti. Il risultato dei suoi studi però sarebbe stato assolutamente personale: più che all’acqua, alla natura e all’evanescenza delle forme si sarebbe interessato all’architettura e ai volumi dando ai suoi primi lavori un forte senso di solidità.
Gli inizi della sua carriera non furono facili: l’attività artistica non fruttava e per mantenersi Edward dovette fare l’illustratore, mestiere che esercitò con molti mal di pancia, perché lo considerava troppo vincolato al mercato e lesivo della sua libertà espressiva. In tal modo si barcamenò per quasi vent’anni finché – ottenuti i primi riconoscimenti – lasciò definitivamente quel lavoro per dedicarsi solo alla sua arte. Stava abbandonando i soggetti europei per affrontare esclusivamente quelli americani, in particolare le immagini urbane di New York e la natura del New England. Per superare la pittura “en plein air” imparò anche la tecnica dell’acquaforte, ricostruendo il soggetto in studio e affidandosi solo ai suoi ricordi e alla sua immaginazione. A questo quest’ultimo genere appartiene “Ombre nella notte”, una strada cittadina inquadrata dall’alto con un moderno taglio fotografico e attraversata da un unico e solitario passante, un’opera piena di tensione e mistero, che certamente deve molto al cinema in bianco e nero. L’incisione è degli anni Venti, i “roaring twenty”, anni ruggenti di sviluppo economico, dell’esplosione del jazz, di un balzo in avanti qualitativo anche nella vita quotidiana, della diffusione dell’automobile e degli elettrodomestici. Ma niente di questo frenetico ottimismo trapela da questo e da altri lavori di Hopper. La sua America è deserta e priva del fascino del mito: i soggetti rappresentano scorci di vie urbane, caffè, drugstore, distributori di benzina, negozi, appartamenti e uffici popolati da rari personaggi, immagini irreali immerse in una luce cruda che blocca qualsiasi movimento, mentre tutto sembra essere pervaso da un senso di vuoto e solitudine.

Opere che assomigliano alla vita eremitica che lui stesso si scelse: per quasi due terzi della sua esistenza visse e lavorò in uno studio a Washington Square, New York, senza bagno né frigorifero, e con il riscaldamento a carbone che doveva essere portato in casa percorrendo a fatica quattro rampe di scale; in compenso la vista era bellissima e un grande lucernaio gli offriva la luminosità necessaria per dipingere. Uomo di vaste letture, aveva pochi amici e se doveva parlare della sua pittura si esprimeva in modo asciutto, quasi a monosillabi; era timido chiuso e nevrotico, un personaggio antieroico come si presenta lui stesso in un autoritratto col cappello, con un viso inespressivo da uomo che si può incontrare ogni giorno e dimenticare subito dopo. Di lui fu scritto che nessuno era più sicuro della realtà dei fatti e meno convinto del loro valore. Scapolo fino ad oltre quarant’anni, si sposò nel 1924 con Josephine Verstille Nivison, una pittrice che sarebbe stata per il resto della vita la sua segretaria e la sua unica modella e che avrebbe condiviso la sua vita di recluso, rinunciando a malincuore anche alla propria creatività, cui era soprattutto contrario il marito: “Non è bello avere una moglie che dipinge?” – gli aveva chiesto una volta lei – “Puzza” lui le aveva risposto. Ci sono rimasti i diari di Jo, che raccontano di un’unione non facile: lei era estroversa e curiosa, lui chiuso, indolente e solitario, un “cencio senza consapevolezza”. Arrivarono alle percosse reciproche, graffi, morsi, pugni e ceffoni; ciò nonostante non si lasciarono mai e nel loro venticinquesimo anniversario di matrimonio Hopper realizzò uno stemma che rappresentava il loro matrimonio attraverso un mestolo e un mattarello, simbolo di quella strana coppia che campava di amore e violenza domestica.

L’arte di Edward Hopper ebbe successo solo dopo il 1924, periodo dopo il quale rafforza sempre di più la sua coerenza figurativa: uno dei suoi temi caratteristici è la rappresentazione di ambienti inquadrati come se se fossero visti da un osservatore esterno. Nascono così alcuni capolavori come “Finestre di notte”, “Ufficio di notte”, “Stanza d’albergo” o il notissimo “Nottambuli” (Nighthawks), quadro da lui molto amato. Nonostante raffigurasse scene del suo paese rifiutò sempre l’appellativo di “pittore della realtà americana”, affermando che non voleva dipingere quello che vedeva ma solo ciò che provava; allo stesso modo non accettò che gli dicessero che i suoi quadri riflettevano l’isolamento della vita moderna, sostenendo che gli interessavano di più la luce e i colori. Sappiamo che non si metteva in posa davanti a un soggetto, ma che piuttosto raccoglieva le sue impressioni in numerosi schizzi, e che reinventava la realtà a suo modo, inserendovi elementi presi da diversi posti che aveva osservato. Quando dipinse “Gas” immagine notturna di una pompa di benzina – forse la prima rappresentazione artistica di una stazione di servizio – dichiarò che il posto non esisteva ma che se l’era inventato dopo averne osservate parecchie.

Si era costruito una casetta a Massachusetts Bay dove passò ogni estate assieme a Josephine. Gli piacevano la luce molto intensa, le coste spazzate dal vento, le rocce, l’oceano, i fari e le rare case dai tetti a punta e dalle pareti bianche. Non smise mai di abbandonare lo studio della luce e non a caso nel titolo dei dipinti eseguiti tra gli anni Cinquanta e Sessanta compare spesso la parola “sole”. L’ultimo lavoro, prima di spegnersi ormai ottantacinquenne a New York, rappresenta lui e sua moglie come due attori sul palcoscenico di un teatro mentre – a fine rappresentazione - si inchinano di fronte al pubblico, un modo ironico di abbandonare la commedia della vita. Jo Hopper morì dieci mesi dopo il marito, lasciando in eredità al Whitney Museum of Modern Art di New York più di tremila lavori fra dipinti, disegni, acquerelli e stampe.

Fonti: Elena Pontiggia, Hopper, I Classici dell’arte, Rizzoli-Skira

domenica 17 settembre 2017

Giambatta Bolzon, il barbiere padovano che svelò i misteri dei Faraoni

L'hanno paragonato a Indiana Jones, ma Giovanni Battista Belzoni (Giambatta in dialetto veneto) aveva in comune col personaggio di George Lucas e Steven Spielberg solo la vita avventurosa e non certo la brillante carriera di professore di archeologia. Era nato alla fine del Settecento in un quartiere popolare di Padova, il Portello, primogenito di Giacomo Bolzon un “tonsore” a capo di una famigli numerosa e modesta dove i maschi dovevano iniziare presto a lavorare per nutrire la tribù di bocche affamate. All'epoca il mestiere comportava anche – oltre a regolare barba e capelli – salassi e piccole operazioni chirurgiche, e sembra che il giovane garzone se la cavasse abbastanza bene, se non fosse stato per l'immaginazione vivace e la testa piena di sogni, unita alla tenace volontà di realizzarli. Prova ne sia che a tredici anni scappò di casa col fratellino Antonio, per cercare di raggiungere Roma, città che doveva affascinarlo per la sua storia gloriosa, conosciuta attraverso qualche lettura dei classici e ai racconti che se ne facevano; i due sarebbero arrivati solo a Bologna per tornare poi a casa verso l'inevitabile lavata di testa dei genitori, ma solo perché il piccolo non ce la faceva più. Lui, Giovanni, non era stanco: stava crescendo e sarebbe diventato un gigante di due metri e dieci di altezza dotato di invidiabili salute e forza fisica, a cui l'ambiente ristretto del Portello doveva sembrare soffocante.

Tre anni dopo ritentò l'avventura verso la città eterna e ci riuscì. Si era nel 1794, in piena epoca del “Grand Tour” quando folle di viaggiatori e intellettuali benestanti attraversavano la penisola per visitare le vestigia del Belpaese. Un viaggio troppo costoso per il modesto figlio di barbiere, al punto che la mancanza di denaro rese il suo periodo romano oscuro e difficile, probabilmente trascorso – oltre che a contemplare e disegnare rovine – a cercare di mettere assieme il pranzo con la cena. Fu lì che però apprese – non sappiamo bene come – una serie di conoscenze idrauliche che gli sarebbero servite in seguito, e da lì scappò quando le truppe francesi guidate da Napoleone Bonaparte iniziarono la campagna d'Italia con lo specifico scopo di abbattere gli antichi regimi reazionari tra cui lo Stato Pontificio.
Un giovane in buona salute rischiava l'arruolamento forzato: Giovanni Battista fuggì quindi verso il nord Europa dove dal 1803 lo ritroviamo a Londra. Grande, grosso e appariscente com'era trovò lavoro presso un teatro di varietà, il Sadler's Wells. Impressionato dalle dimensioni di Bolzon - che da quando era in Inghilterra aveva cambiato il cognome in Belzoni - l'impresario pensò bene di cucirgli un personaggio su misura, il selvaggio Sansone Patagonico. Davanti al pubblico impaurito si presentava un colosso barbuto e dai capelli lunghi, vestito di una tunica leopardata e che caricava su un'imbracatura di ferro fino a dodici uomini, il tutto sorridendo senza apparente fatica. Il successo fu totale: Giovanni era bello e di modi gentili, raro agli scatti d'ira, sapeva controllare la sua incredibile forza ed era ben disposto verso gli altri. Restò per un po' al Sadler's Wells, fino a quando l'avventura ricominciò a chiamarlo: nel frattempo aveva trovato moglie, Sarah, una donna molto indipendente e intraprendente che si adatterà con coraggio alla vita vagabonda del marito. Assieme i due viaggiarono per tutta l'Europa, presentando il Sansone Patagonico arricchito da fiamme e giochi di fontane colorate di sua invenzione.

Approdarono infine in Egitto - a quel tempo una provincia dell'impero ottomano – dove il pascià Mehmet Alì voleva intraprendere un vasto programma agricolo che avrebbe comportato grossi lavori di irrigazione, la materia in cui Belzoni si era specializzato a Roma. Il progetto non sarebbe mai andato in porto, ma nel nuovo e affascinante paese Giovanni avrebbe scoperto la sua vera vocazione, trasformandosi da esperto di idraulica in pioniere dell'archeologia. Dopo la campagna napoleonica che aveva attirato l'attenzione dell'Europa sul paese, l'Egitto – dimenticato per secoli – era diventato di moda e si era riempito di avventurieri (la maggior parte senza scrupoli) interessati soltanto a depredarlo delle sue antichità, che non godendo di alcuna protezione a causa dell'assoluta mancanza di leggi in materia, potevano essere portate impunemente all'estero. Nel 1815 non era ancora stata decifrata la scrittura geroglifica (ci sarebbe riuscito qualche anno dopo Jean-François Champollion con la celeberrima stele di Rosetta) e gli scavatori procedevano a casaccio, nella vana speranza di ritrovare oro e pietre preziose, senza alcun rispetto per le parti murarie, che venivano picconate senza pietà o addirittura fatte saltare con l'esplosivo. Giovanni Battista Belzoni che, al contrario, era rimasto senza fiato di fronte alla bellezza di quei posti, decise seduta stante di esplorare il paese e raccogliere antichità da mandare a Londra, ma sempre attento al rispetto per quella venerabile civiltà.
Dal 1816 al 1819 il padovano compì tre importanti viaggi archeologici spingendosi verso sud tra mille difficoltà, scoprendo siti, raccogliendo manufatti e spendendo un mucchio di denaro per organizzare le sue avventure, ottenere il favore dei capi arabi, pagare gli operai. Non voleva dipendere né dai francesi né dagli inglesi che si dividevano l'Egitto e scoprì ben presto che senza il loro aiuto accordarsi con la popolazione locale era una questione complicata: a quel tempo il lavoro manuale o l'interessamento di qualche potente dovevano essere conquistati con regalie in natura come tabacco, sapone, sale, zucchero, a volte vino (alla faccia della legge coranica) mentre in molte parti del paese la moneta locale, la piastra, non era nemmeno conosciuta. Per ingraziarsi gli operai, che spesso non si presentavano al lavoro, imparò anche l'arabo e cominciò a vestirsi con turbante e caftano. Un altro intralcio fu costituito dai rapporti, dapprima amichevoli, poi via via sempre più tesi, coll'influente console francese (ma di nascita italiana) Bernardino Drovetti che dapprima gli aprì molte porte importanti, poi – infastidito dall'intraprendenza e indipendenza di Giovanni – cominciò ad ostacolarlo impedendogli di scavare dove voleva lui e alla fine riuscì a rispedirlo definitivamente in l'Europa seguito da una nave carica di reperti. In quanto al console – fanatico collezionista – vendette la sua imponente raccolta ai Savoia gettando le fondamenta per il Museo Egizio di Torino.

Il primo importante reperto raccolto da Belzoni fu il busto crollato del faraone Ramses II – ribattezzato erroneamente “il giovane Memnone”- una statua in granito alta quasi tre metri e di sette tonnellate e mezzo di peso il cui viso rivolto al cielo – secondo l'aspirante archeologo - “si sarebbe detto che sorridesse all'idea di essere trasportato in Inghilterra”. Grazie alle sue conoscenze ingegneristiche Giovanni costruì una grande slitta e riuscì in soli 15 giorni a trascinare il monumento fino al Nilo per caricarlo su una barca. Mentre il colosso abbandonava il Ramesseum di Tebe dove era stato rinvenuto, il padovano decise di dirigersi verso il sud dell'Egitto, superando in battello le pericolose cateratte del Nilo per raggiungere Abu Simbel a 1200 chilometri dal Cairo dove i templi di Ramses II e della regina Nefertari - già scoperti dall'esploratore e orientalista svizzero Johann Ludwig Burckhardt – erano in gran parte sepolti dalla sabbia. Belzoni iniziò lo scavo ma – a corto di viveri e di denaro – dovette interrompere il lavoro che avrebbe proseguito solo nel 1817 con sua grande delusione perché all'interno non riuscì a trovare i tesori che sperava lo risarcissero delle spese. 
Nello stesso anno si concentrò anche sulla valle dei Re in cui avrebbe rinvenuto otto tombe tra cui quella di Seti I, padre di Ramses II, soprannominata "cappella Sistina egizia" per la splendida decorazione a bassorilievi policromi. Come la maggior parte delle sepolture faraoniche anche questa era stata saccheggiata e la mummia riposta per proteggerla assieme ad altre in una sorta di deposito a Deir el-Bari, da cui molti anni dopo venne estratta. Sormontato da uno splendido soffitto stellato, il sepolcro fu lasciato intatto da Belzoni, ma successivamente aggredito da avventurieri senza scrupoli che ne asportarono parte dei dipinti finché il governo egiziano non lo chiuse del tutto, permettendone la visita solo in rare occasioni. Giambatta era uno di quegli uomini che non riusciva a riposare sugli allori: conclusa la tomba di Seti I chiese un prestito e decise di dedicarsi alla piramide di Chefren, la seconda in grandezza tra i monumenti di Giza dopo quella voluta dal padre Cheope, e l'unica ad aver mantenuto intatto una piccola parte del rivestimento in calcare che faceva splendere i monumenti come prismi lucenti. 
Da secoli se ne era dimenticato l'ingresso e si pensava che non esistessero camere sepolcrali; manco a dirlo Giovanni riuscì a risolvere il dilemma e, penetrato all'interno, pensò bene di lasciare la sua vistosissima firma sulle pareti, in modo da non farsi derubare del merito; quelle delle firme era una sua mania: forse per la sua umile origine, forse per paura che le sue ricerche non fossero riconosciute, aveva già lasciato il suo cognome inciso dietro l'orecchio del Memnone-Ramses, oltre che accanto al piede di una statua di Amenofi e su un altare antico.
I coniugi Belzoni tornarono in Italia alla fine del 1819, regalarono due statue alla municipalità di Padova e ne ricevettero in cambio una trionfale medaglia commemoratica col ritratto di lui. A Londra - ormai città adottiva di Giovanni - pubblicarono un libro sui viaggi in Egitto corredato da mappe e acquerelli, e organizzarono una mostra di reperti tra cui i calchi dei rilievi della tomba di Seti I. 
Il figlio del barbiere era ormai accolto nei salotti più illustri e fu ricevuto anche dall zaro di Russia, ma si trovava come al solito a corto di denaro. Accettò quindi di ripartire per l'Africa da solo, alla ricerca delle sorgenti del fiume Niger; a quell'epoca si viaggiava senza vaccini nè cure mediche e lui si fidava forse troppo della sua fibra robusta: giunto al porto fluviale di Gwato fu aggredito dalla dissenteria morendone a soli 45 anni. Sarah sarebbe invece vissuta fino a tarda età, cercando di tener viva la memoria del marito.
Fonte: Marco Zatterin, Il gigante del Nilo,  ed. il Mulino