martedì 6 giugno 2017

Quando la nuda pelle non basta:il corpo e il tatuaggio

Winston Churchill aveva addosso un'ancora, Theodore e Franklin Delano Roosevelt - rispettivamente ventiseiesimo e trentaduesimo presidente degli Stati Uniti d'America - lo stemma di famiglia, mentre l'ultimo zar di tutte le Russie Nicola II, affascinato dalla cultura orientale, preferì un drago ed Elena di Savoia, moglie di Vittorio Emanuele III, una vezzosa farfalletta. Sto parlando di tatuaggi, oggi di gran moda, ma che un tempo in Europa solo pochi coraggiosi come i personaggi citati si facevano incidere chi sulle braccia o sul torace, chi sulle mani o sulla gamba. L'abitudine di decorare il corpo con incisioni e cicatrici di ogni genere risale alla preistoria: il più antico individuo tatuato di nostra conoscenza è Otzi, un uomo di mezza età ritrovato nel 1991 sulle Alpi Venoste, ai piedi del ghiacciaio del Similaun, che ha 61 tra punti, linee crocette tatuati in corrispondenza di infiammazioni artritiche. Molto più recente è la mummia di Amunet, sacerdotessa della dea Hathor che ha una serie di puntini incisi sul basso ventre, che secondo alcuni studiosi sarebbero collegati alla fertilità o alla sessualità.
In un divertente libro del 1975: “Il corpo incompiuto. Psicopatologia dell'abbigliamento”, l'architetto, storico e scrittore austriaco Bernard Rudofsky, si chiede cosa può spingere l'essere umano a non accontentarsi della sua nudità (anche quando il clima lo permetterebbe) ma a dipingersi, incidersi, deformare il corpo con busti, tacchi alti, crinoline, acconciature e molte altre stravaganti sovrapposizioni. Forse ci mancano i piumaggi colorati degli uccelli o le belle pellicce maculate e striate dei mammiferi? La sociologia e psicologia odierne forniscono varie risposte. Qui mi occuperò solo del campo relativo al tatuaggio, un sistema a volte molto doloroso per decorarsi e al tempo stesso comunicare i propri desideri e propositi, le idee, le paure, l'appartenenza culturale o lo stato sociale. I segni sul corpo infatti sono un messaggio che diamo al gruppo che ci circonda, e avevano un particolare significato per quelle che ci ostiniamo a chiamare “popolazioni primitive”. Gli antropologi distinguono tra tatuaggi estetici, solitamente per nascondere rughe o difetti della pelle; tatuaggi portafortuna o superstiziosi, per difendersi dal malocchio o tener lontani gli spiriti maligni; d'onore, come lo sfoggiare il numero dei nemici vinti in battaglia; di possesso, eseguiti non solo sugli schiavi e il bestiame ma anche sulle mogli; religiosi come quelli dei cristiani copti che si marchiano tuttora una croce sulla fronte; di ricordo, in memoria di un caro estinto. Molto spesso le fasi importanti della vita di un individuo erano accompagnate da una cerimonia religiosa, in cui veniva sottoposto alla dolorosa iniziazione del tatuaggio per accedere a una nuova fase della vita sociale o sessuale. Sì, perché, prima dell'invenzione del benemerito ago elettrico farsi incidere la pelle non era uno scherzo: si utilizzavano – ovviamente senza anestesia - stampi, aghi, ossa o conchiglie appuntite e martelletti per far penetrare il colore sotto pelle. Presso le isole Samoa la cerimonia del tatuaggio maschile era una prova di coraggio per entrare nell'età adulta senza la quale un giovane non poteva sposarsi né tanto meno rivolgersi agli anziani, ma era considerato un paria a cui affidare solo compiti degradanti. L'operazione durava cinque giorni: la parte tatuata andava dal giro vita alle ginocchia, genitali compresi, e a volte qualcuno poteva anche lasciarci le penne.
In Europa il tatuaggio fu sempre guardato con molta diffidenza. Nella Bibbia il Levitico ordina: “ Non vi farete incisioni nella carne per un defunto, né vi farete dei tatuaggi addosso”, ma il motivo principale per cui questi segni distintivi sparirono dalla pelle con l'avvento del cristianesimo fu soprattutto un decreto di papa Adriano I, che nel 787 li proibì tassativamente perché puzzavano lontano un miglio di paganesimo. Sembra però che alla chetichella l'usanza continuasse anche nel medioevo, se è vero che molti combattenti in Terra Santa si fecero incidere addosso la croce, e non solo per fede, ma anche come portafortuna contro le scimitarre dei saraceni. Da noi rimase comunque l'idea che il tatuaggio stravolgesse il corpo naturale creato da Dio, e quando i colonizzatori e soprattutto i missionari al seguito cercarono di portare i “selvaggi” sulla retta via, una delle cose che si affrettarono a combattere fu proprio l'usanza di tatuarsi.
Nonostante le autorità ostili i contrassegni corporei rimasero presenti nella cultura europea se pur con alti e bassi. Non solo i pellegrini si tatuavano, ma ci sono testimonianze che dal XVI secolo gli artigiani europei si imprimevano i simboli del loro mestiere - il cosiddetto “Marchio di Caino” - perché si credeva che il figlio fratricida di Adamo avesse intrapreso una professione manuale. Né sparirono i tatuaggi religiosi: in Italia in particolare chi si recava in pellegrinaggio a Loreto si faceva incidere in blu dai cosiddetti “Frati marcatori” simboli come il pesce, la croce, la Madonna o la Santa Casa. Ma accanto a questi segni positivi c'erano anche i marchi d'infamia: chi ha letto “I tre moschettieri” di Alexandre Dumas ricorderà che la perfida Milady aveva tatuato a fuoco sulle belle spalle il giglio di Francia (fleur de lys); sempre in Francia fu elaborato un sistema di marchiatura per i ladri (V, voleur), i mendicanti e i galeotti (rispettivamente M e Gal). Anche in Russia prima della rivoluzione d'ottobre i criminali avevano tatuata sulla fronte o sulle guance l'iniziale del loro misfatto, e la stessa sorte era riservata ai disertori in Inghilterra.

Nel XVIII secolo il capitano James Cook, che a bordo della nave HMS Endeavour esplorò per conto di Sua Maestà Britannica l'oceano Pacifico, trascrisse per la prima volta nei suoi diari di bordo la parola “Tattow” derivata dall'onomatopeico “tau-tau” che ricordava il rumore del martelletto che picchiava sulla punta che serviva a bucare la pelle. Non contento Cook si portò dalle isole Marchesi un capotribù completamente tatuato, cui seguirono altri polinesiani esposti nei circhi alla stregua della donna cannone, introducendo una nuova moda che fece impazzire dapprima l'aristocrazia europea, per poi soggiogare i viaggiatori e in particolare i marinai che consideravano quei disegni simbolici un portafortuna contro ogni pericolo. Tra la fine del Diciannovesimo e l'inizio del Ventesimo secolo ci poteva guadagnare da vivere grazie alla propria pelle presentandosi al pubblico pagante con un nome esotico (Dyta Salomé, Creola, Don Manuelo, La bella Irène, ecc.) e il corpo interamente inciso e colorato.
La pratica si diffuse ancor di più tra i criminali, in particolare dopo l'Unità d'Italia, quando molti di loro furono esiliati in Nord Africa dove appresero decorazioni che adattarono alla loro condizione di fuorilegge: tatuaggi segreti, situati in parti del corpo non visibili e che indicavano la loro affiliazione a qualche gruppo malavitoso o tatuaggi pubblici, destinati a ricordare la mamma o la donna amata, a rivendicare il loro valore, a insultare le autorità e promettere vendetta esibendo pugnali, pistole o rasoi. Questi disegni erano accompagnati da scritte che sottolineavano e ostentavano forza e disprezzo per le regole sociali: “morte agli sbirri”, “né Dio né padrone”, il francese “merde” sul lato esterno della mano e ben visibile al momento del saluto militare. Nell'Ottocento il criminologo Cesare Lombroso si diede allo studio della personalità malavitosa partendo dal presupposto - completamente superato - che “criminali si nasce” a causa di certe anomalie fisiche congenite che determinavano il comportamento deviante. Le sue ricerche, raccolte nella sua opera principale “L'uomo delinquente”, presero anche in considerazione più di 10.000 malviventi tatuati (donne comprese), arrivando alla conclusione che – ripescando usanze tipiche dei popoli primitivi – costoro non facevano altro che esprimere il loro legame arcaico con cavernicoli e palafitticoli. Solo tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento il tatuaggio si allargò alle culture giovanili degli hippy e delle bande di motociclisti, conquistando in seguito ogni strato sociale e fascia di età.
Al giorno d'oggi i tatuaggi criminali più famosi del mondo sono quelli a cui si sottopongono gli affiliati alla Yakuza, la famosa e potentissima mafia giapponese popolata quasi esclusivamente da uomini che hanno il corpo quasi interamente coperto da disegni molto colorati e molto dolorosi da eseguire, dal momento che non vengono usati strumenti elettrici ma una serie di aghi e bacchette che permettono di ottenere le belle e caratteristiche sfumature. I motivi degli “irezumi” – così si chiamano – sono in parte quelli delle antiche stampe Ukiyo-e fiorite nel paese tra il Diciassettesimo e Ventesimo secolo, aggiustati con elementi sanguinari: dai dragoni simbolo di longevità, alle colorate carpe che tuttora ornano i locali laghetti, collegate alla virilità, alle teste mozzate che dichiarano di accettare la morte con onore, ai demoni cornuti, e naturalmente ad animali feroci come tigri e leoni. Proprio perché caratteristici della mafia, nel Giappone moderno i tatuaggi sono guardati con sospetto e in taluni luoghi - come bagni termali, piscine e palestre – decisamente vietati. In quanto agli uomini della Yakuza evitano con cura di tatuarsi collo, braccia e gambe in modo da poter esibire le proprie decorazioni solo nelle riunioni del clan.



domenica 4 giugno 2017

Gamberi, anguille e castagne: gli strani menù dell’Ultima Cena

Carne di agnello o di capretto, pane azzimo, erbe amare, e probabilmente charoset, una salsa a base di mele, mandorle, prugne, noci, datteri tritati, miele e vino: questi forse furono gli ingredienti dell’Ultima cena celebrata da Cristo e gli Apostoli in occasione della Pesach, la Pasqua ebraica. Benché i Vangeli non siano chiari in proposito il menù si può desumere dalla descrizione che ne da il libro dell’Esodo, quando gli ebrei consumarono in fretta e furia il loro pasto serale prima di lasciare l’Egitto e partire alla volta della Terra promessa, con l’ordine divino di ricordare ogni anno l’evento. Nella religione cattolica la cena si è trasformata nella celebrazione non tanto dell’esodo quanto dell’istituzione eucaristica e le immagini relative sono diventate nei secoli l’occasione per proporre ogni sorta di vivande molto lontane dalla tradizione veterotestamentaria; arricchendosi anche di inattesi ospiti che niente avevano a che fare con gli Apostoli, come cani, gatti o pavoni. Fantasie di artisti? No di certo. Il pensiero medievale non considerava in modo materialistico le cose di questa terra, ma vedeva negli eventi, nella natura e perfino negli oggetti una corrispondenza col soprannaturale di cui diventavano un simbolo. Così una mela non era semplicemente un frutto gustoso e pieno di vitamine, ma il segno tangibile del peccato di Adamo ed Eva; il pavone – la cui carne già in epoca romana era considerata incorruttibile – rappresentava invece la perfezione dell’uomo non guastato dal peccato e destinato all’immortalità. L’arte era una metafora del sublime, in un intrico di significati che a noi moderni rende non facile la lettura delle opere dell’epoca.

Durante il medioevo la rappresentazione del sacro simposio mantenne uno stile sobrio e discreto: nell’immagine più antica del Cenacolo – quella dei mosaici della basilica di Sant’Apollinare nuovo a Ravenna – Gesù e gli Apostoli, semi sdraiati davanti a una tavola che ricorda le mense latine, sono in procinto di mangiare alcune pagnotte e due grossi pesci. Simbolo cristologico per eccellenza, questo animale veniva tracciato come segno di riconoscimento dai cristiani della Roma pagana perché le lettere della parola greca “ichthýs”, pesce, erano l’acronimo di “Iesùs CHristòs THeù HYiòs Sotèr”, ossia “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”. Nel mosaico ravennate Giuda non si distingue dagli altri dodici, ma con l’andar del tempo assumerà connotazioni sempre più consone al suo ruolo di traditore: brutto, scuro e cattivo, spesso posto dall’altra parte del tavolo e con i denari in saccoccia. 
In tal modo compare ad esempio in un affresco della chiesa di San Martino a Ditto di Cugnasco nel Canton Ticino, dove un anonimo e rustico pittore del tardo Quattrocento lo rappresenta addirittura col gozzo, patologia della tiroide allora diffusa tra gli abitanti delle Alpi. Sulla tovaglia sono posati alcuni gamberi di fiume, curioso tema riprodotto dal XIII al XV secolo nelle chiese dell’arco alpino centro-orientale da artisti che più che ispirarsi al testo biblico si attenevano ingenuamente alle tradizioni locali. I crostacei erano interdetti dall’Antico Testamento perché considerati impuri, ma nelle zone montane d’Europa costituivano un ottimo cibo quaresimale; il colore rosso che assumevano con la cottura aveva probabilmente il significato simbolico di predestinazione alludendo al sangue che sarebbe stato versato da Cristo. Per lo stesso motivo uccelli come cardellini e pettirossi o vegetali come ciliegie, uva, fragole e perfino fiori scarlatti come il garofano, costellavano spesso le immagini religiose per sottintendere il sacrificio del Salvatore.
Durante il rinascimento, molto più laico e godereccio, le portate dell’Ultima cena aumentarono quasi del 70 %, segno evidente di un cambiamento dei gusti alimentari, mentre la tavola si riempì di calici e bottiglie in cristallo, dipinti da artisti memori delle sontuose imbandigioni delle corti signorili. Il tema del Cenacolo fu posto a decorazione dei refettori conventuali occupando un’intera parete, mentre l’ immagine si fissò in alcune forme convenzionali che permettevano di riconoscere a colpo d’occhio i personaggi del dramma e la gamma dei sentimenti espressi. A Firenze in particolare il soggetto conobbe una notevole fortuna e fu un banco di prova per pittori come Andrea del Castagno, Pietro Perugino, Andrea del Sarto, Domenico Ghirlandaio: a quest’ultimo si ascrivono ben tre rappresentazioni della scena, tra cui il Cenacolo di Ognissanti, uno spazio rettangolare parzialmente aperto su un giardino dove sul tavolo, ricoperto da una elegante tovaglia decorata a punto Assisi, sono posati piatti con resti di cibo, pane, vino, lattuga (simbolo della penitenza) arance (dorati frutti del paradiso) e 37 ciliegie che spiccano scarlatte sul bianco telo di lino, mentre due animali cristologici, il pavone e il cardellino, osservano dall’alto la cerimonia. 
Il più famoso Cenacolo quattrocentesco è però quello di Leonardo da Vinci nel refettorio del convento annesso al Santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano: il dipinto come è noto, si degradò molto presto a causa della particolare tecnica con cui era stato realizzato, subendo nel tempo ulteriori perdite dovute a interventi maldestri di ridipintura, per rischiare la distruzione totale durante il bombardamento di Milano del 1943. Il lungo e complesso restauro durato ben 17 anni ha permesso di scoprire pietanze degne della corte di Ludovico il Moro, in particolare anguille alla griglia guarnite con fette d’arancia; l’artista amava la cucina e tra i suoi appunti ci sono anche ricette a base di questo e di altri tipi di pesce conditi, come usava all’epoca, con miele e molti tipi di spezie.
L’Ultima cena del toscano Alessandro Allori è un pasto di magro che sarebbe piaciuto a un vegano. I lussuosi piatti di ceramica decorata contengono ogni sorta di alimento vegetale la cui forma fu accuratamente copiata dagli erbari dipinti per la famiglia Medici da Jacopo Ligozzi e che costituiscono un’allegoria della natura divina di Cristo, della sua passione e dell’Eucarestia: alla prima si associano mandorle, pere, mele cotogne, datteri, olive e perfino castagne, il cui albero – che germoglia dopo la potatura – rappresenta la Resurrezione, mentre alla seconda sono collegati il cardo, il giglio e naturalmente il pane e il vino. Tornando al nord, un buon profumo d’arrosto emana dalla Cena di Paolo Veronese, mentre in quella di Jacopo Tintoretto, piove manna dal cielo ed è inserita addirittura quella che sembra una torta con le candeline. 

Dal Quattrocento cominciano a comparire sotto alla tavola cani e gatti, spesso in atteggiamento combattivo. I primi gatti erano arrivati nell’antica Roma a seguito dei legionari e si erano diffusi rapidamente in Europa: dapprima apprezzati per la caccia ai topi, dal medioevo in poi furono accusati di connivenza col Maligno e addirittura scomunicati da papa Innocenzo VIII. Con queste premesse il magnetico e misterioso animale non poteva che essere considerato il socio di Giuda Iscariota, ai cui piedi veniva spesso sistemato come vera e propria ombra del Diavolo; il cane era invece l’eroe buono della situazione perché simboleggiava l’uomo giusto e fedele che seguiva la Buona Novella. 
Tra i molti e curiosi felini “demoniaci”, uno di loro sonnecchia accanto all’apostolo traditore in una pala d’altare di Gerolamo Romanino, in cui tre personaggi offrono anche una lezione di galateo rinascimentale che prescriveva di poggiare i tovaglioli sulla spalla sinistra.

Fonti: 

La Madonna contesa

Piero di Benedetto de' Franceschi, comunemente noto come Piero della Francesca, aveva probabilmente una quarantina d’anni quando dipinse la Madonna del Parto per l’antica chiesa di Santa Maria Momentana ai piedi della collina di Monterchi, paesetto della Val Tiberina poco distante da Borgo Sansepolcro, suo luogo natale. Artista pienamente affermato e pressato da commissioni prestigiose per le più importanti corti rinascimentali italiane, era sempre rimasto legato alla sua terra e al suo paese d’origine, dove viveva la sua famiglia e dove esercitava cariche pubbliche nel consiglio comunale. Non meraviglia quindi che, forse dopo la morte della madre Francesca nel 1459, gli sia stato affidato l’incarico per l’affresco rappresentante una Madonna gravida affiancata da due angeli. Stabilire date certe per l’opera di Piero è tuttora un problema quasi insolubile, data la scarsità delle fonti documentali e i molti suoi lavori andati purtroppo distrutti; sappiamo però che nello stesso periodo era stato incaricato di dipingere il “Ciclo della vera Croce” per la chiesa di San Francesco ad Arezzo, che distava una giornata di cavallo da Monterchi. Probabilmente interruppe l’opera aretina e si recò in paese, dove in un paio di settimane il lavoro fu finito.
L’immagine della gravidanza della Vergine è piuttosto insolita nell’arte italiana. Il dogma di Maria genitrice e madre di Dio era stato sancito un millennio prima dal concilio di Efeso, ma la sua interpretazione figurativa era stata sempre collegata agli episodi dell’Annunciazione e della nascita di Gesù o semplicemente tradotta nell’effigie di Lei col Bambino in grembo. La gestazione, un fatto così umano e palpabile, non era facile da rappresentare senza evitare riferimenti alla sessualità e sottolineando in più che il concepimento era avvenuto senza l’intervento maschile, che la purezza di Maria era intatta e che la sua divinità la metteva al di sopra di ogni consuetudine terrena. Il tema della maternità miracolosa della Vergine aveva trovato posto nell’arte greco - bizantina nell’immagine della Platytera (ossia “più ampia”perché porta in seno la potenza del redentore), una figura con un medaglione sul petto al cui centro risplende l’infante divino. L’idea del corpo-involucro si era sviluppata nel medioevo europeo in forma scultorea nelle insolite e curiose raffigurazioni della Madonna con uno scomparto scavato nel ventre da cui spunta un piccolo Gesù. Ma a parte dogma e teologia, in un’epoca in cui mettere al mondo un figlio era una questione pericolosa era inevitabile che la Madre divina attirasse la devozione popolare nel suo ruolo di protettrice delle partorienti. In Toscana la rappresentazione della Madonna gravida – spesso con un libro in mano, simbolo del Verbo – si era diffusa nel medioevo: sul volume a volte è dipinto il primo verso del Magnificat, il cantico di ringraziamento che – nel Vangelo secondo Luca - Maria alza al cielo incontrando la cugina Elisabetta, incinta pure lei di Giovanni Battista.
Con Piero della Francesca il libro scompare, mentre la Vergine si manifesta sotto un sontuoso baldacchino che ricorda una tenda da campo ma anche un tabernacolo eucaristico, divina e umana al tempo stesso, piena di dignità e di mistero. Questa solida ragazza toscana vestita di azzurro, é messa leggermente di tre quarti per evidenziare la curva gonfia del ventre su cui lei posa la mano con grazia leggera in un gesto protettivo comune alle donne in attesa. Un capolavoro assoluto su cui i critici d’arte hanno già scritto tutto: chi la racconta come una “giovane montanina che venga sulla porta della carbonaia” (Longhi), alludendo al realismo quasi rustico della figura, chi ne paragona lo sguardo assorto all’arte buddhista (Kenneth Clark); chi la vede come una “Demetra cristiana” (Charles De Tolnay), chi per spiegare l’origine dell’idea di Piero ricorre all’antichissima preghiera: “Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te, tu sei  benedetta fra le donne e benedetto il frutto del tuo ventre, Gesù” (Paolucci).
La devozione verso la Vergine era molto diffusa nel territorio, tant’è che quando Piero iniziò il suo affresco in Santa Maria Momentana fu costretto a sovrapporlo a una precedente immagine della Madonna che allatta, iconografia collegata alla presenza in zona di fonti termali che si credeva potessero far tornare il latte alle puerpere; il culto risaliva all’antichità pagana, come testimoniano le statuette votive rivenute in loco. Attorno alla Santa Madre ruotava un mondo femminile che – alle prese con problemi di sterilità e di gravidanza – si rivolgeva a Lei per intercedere la grazia di avere figli maschi e sani, in un’epoca in cui la colpa dell’infertilità o della nascita di bambine andava tutta e solo alle donne, che correvano oltretutto il rischio di essere emarginate socialmente. Fu così che il capolavoro del pittore diventò – come era normale per quei tempi – una sacra icona a cui rivolgersi per protezione e conforto, avviando una venerazione talmente viva e partecipe che sarebbe durata nei secoli.
La maestosa e soprannaturale bellezza della Madonna del Parto restò fortunosamente immune dalle distruzioni degli uomini e della natura: nel XVIII secolo la chiesa fu parzialmente demolita per fare spazio al cimitero locale ma si decise di lasciare una cappelletta per custodire l’affresco; in seguito due terremoti – l’ultimo dei quali nel 1917 – danneggiarono parzialmente il dipinto che dovette essere temporaneamente rimosso. Ricollocata di nuovo al suo posto la Madonna arrivò intatta fino alla seconda guerra mondiale: a quel tempo Arezzo era battuta dai bombardamenti, e due alti funzionari dell’Università di Firenze e delle Gallerie fiorentine si diressero a Monterchi con un autocarro, per prelevare e portare al sicuro quel capolavoro dell’arte rinascimentale italiana. Quello che seguì è raccontato in uno bell’articolo di Piero Calamandrei sulla rivista “Il ponte”, marzo 1954: “Si sparse subito tra i paesani la voce che fossero tedeschi travestiti, venuti a rubare la Madonna: e invano andarono in cerca del podestà e del curato, che al primo annunzio del loro arrivo si erano squagliati per non farsi complici del trafugamento”. Alla fine trovarono una donna del posto in possesso della chiave, ma quella cominciò a strillare e a chiamare gente, che accorse e tentò di comperare i due presunti nazisti offrendo farina e prosciutti finché, visto che erano irremovibili, qualcuno andò a suonare le campane. “A quel richiamo” – continua l’articolo - “cominciò a radunarsi una folla sempre più minacciosa di paesani e di contadini armati di randelli e di zappe. Alla fine, i due carabinieri di Monterchi, richiamati dalle grida, riuscirono ad issare i due valentuomini sull’autocarro vuoto, che si mise in salvo a stento, riportando con sé, invece della Madonna, i primi assaggi di un carico di bastonate”.

Ormai le autorità avevano capito l’antifona e quando negli anni Novanta si trattò di fare un intervento di restauro, invece di trasportare l’affresco a Firenze fu deciso di allestire un laboratorio in un locale edificio scolastico in disuso, dove è tuttora visibile chiuso in una teca climatizzata. Ma la disputa non era finita. Dopo il restauro infatti, si aprì una lunga querelle tra il Comune di Monterchi, la Soprintendenza ai monumenti e la Diocesi di Arezzo, relativa al possesso dell'opera e alla scelta della sua sede definitiva, che doveva anche garantire una risposta ai bisogni di un culto ancora vivo. Si è anche costituito un comitato “La Madonna dei Monterchiesi”, che difende a spada tratta il dipinto come proprietà esclusiva della comunità e i cui componenti, quando è stato chiesto in prestito per una mostra a Montecitorio, hanno minacciato di incatenarsi alle porte del museo pur di non spostare di un millimetro il prezioso e delicato capolavoro di Piero. Il quale, in attesa della nuova collocazione – probabilmente in un convento - se ne sta tuttora nel suo involucro protettivo, pronto ad offrirsi all’ammirazione di tutti, comprese le donne in stato di gravidanza che – ovviamente – non pagano il biglietto.

Fonti: 
Pier Francesco Greci, La Madonna del parto, Centro studi aretini

Le molte Beatrici di Dante Gabriel Rossetti

Confraternita: questa la parola - che ricorda le associazioni medievali di religiosi, laici, militari, dedite ad opere di carità e assistenza - scelta nel 1848 da un gruppo di artisti inglesi che volevano rifondare l'arte del periodo vittoriano che, secondo loro, aveva tradito la verità limitandosi ad imitare senza fantasia l'ideale di bellezza di Raffaello, da cui si era sviluppata l'odiata pittura accademica. I più importanti furono Dante Gabriel Rossetti, William Holman Hunt, John Everett Millais, Edward Burne-Jones, a cui si aggiunsero in seguito altri affiliati: tutti si firmavano con l'acronimo PRB (Pre-Raphaelite Brotherhood) e sono conosciuti da noi col nome di Preraffaelliti. Trovando nell'arte del medioevo e del primo rinascimento la loro fonte di ispirazione, i Preraffaelliti andarono alla ricerca della genuinità della natura – di cui vedevano l'intrinseca poesia - rifuggendo da tutto ciò che era stucchevole e convenzionale per rappresentare, come scrisse Burne-Jones: “il sogno di un mondo che non è mai esistito e mai esisterà, una terra che nessuno può riconoscere e ricordare, solo desiderare”. I loro colori brillanti (applicati su una tela rustica su cui era stato steso a mo' di affresco uno strato di bianco) erano quelli di Giotto, di Carpaccio, di Botticelli, di Filippo Lippi, la luce era intensa, le forme realistiche fino alla minuziosità.
Non erano cattolici praticanti, ma piuttosto lettori accaniti che trovavano i loro soggetti nella Bibbia, nei drammi di Shakespeare, nelle opere di Dante Alighieri, nelle poesie del Dolce stil novo, nei racconti di Artù e della tavola rotonda e nelle leggende medievali, avendo come scopo una pittura ricca di miti ed elementi simbolici, ma al tempo stesso attenta alla storia e alle tematiche sociali e patriottiche. Il loro soggetto preferito era però la rievocazione di romantiche, malinconiche e sensuali figure femminili situate in paesaggi mozzafiato, di cui il campione carismatico fu Dante Gabriel Rossetti. Primo figlio di un patriota abruzzese che aveva dovuto rifugiarsi a Londra dopo i moti carbonari di Napoli del 1820, il giovane proveniva da una famiglia di artisti: sia il padre che la madre Frances avevano avuto genitori che si dedicavano alla poesia, mentre uno zio di lei, John Polidori, in pieno revival gotico aveva raggiunto il successo con un romanzo in cui si era reinventato la figura fascinosa, aristocratica e maledetta del vampiro.
Gabriel Charles Dante o Dante Gabriel - nome con cui preferiva farsi chiamare perché secondo lui era più adatto a sottolineare il suo amore per la letteratura - aveva un temperamento passionale e pieno d'immaginazione; John Ruskin, l'importante critico inglese che aveva lanciato il gruppo, lo attribuiva alla matrice italiana della famiglia, pur sottolineandone lo spirito indagatore che a suo parere derivava dall'aver vissuto e studiato in Inghilterra. Fu un talento precoce: a sei anni scrisse la sua prima poesia (attività che non avrebbe mai abbandonato) a tredici lasciò gli studi regolari per frequentare una scuola di disegno, a diciassette passò alla Royal Academy, stancandosi quasi immediatamente della monotonia delle lezioni e della copia di modelli classici alternata a lunghe sessioni di prospettiva, e preferendo completare la sua preparazione con lezioni private. Aveva vent'anni quando espose con altri amici il suo primo olio importante, “Ecce Ancilla Domini”, un'Annunciazione in tono dimesso in cui una timida Vergine dai capelli rossi (ritratto di sua sorella Christina) si rannicchia su un lettuccio, spaventata dall'apparizione dall'angelo. L'identica scarna semplicità caratterizzava anche i lavori di Hunt e Millais che nella stessa mostra rappresentavano i sacri soggetti evangelici senza idealizzarli ma come semplici persone della “working class”; il risultato fu una bagarre in cui il più feroce tra i critici fu Charles Dickens, che diventò il loro più accesso avversario in aperto contrasto col suo essere cantore dei poveri orfanelli inglesi. Rossetti, che forse non si aspettava quelle reazioni, decise poi di non esporre più in pubblico, ma di vendere direttamente a privati.
All'inizio della carriera al romantico Dante, che non aveva un soldo in tasca e nascondeva i buchi dei suoi abiti dipingendosi la pelle sottostante, mancava oltre che il successo anche una Beatrice. La trovò un paio d'anni dopo la formazione della Confraternita in Elizabeth Eleanor Siddal, una modista povera e bellissima dotata di una fulgente massa di capelli rossi: dovette essere un colpo di fulmine perché la ragazza diventò in breve tempo la sua modella e la sua amante continuando anche a posare per altri artisti del gruppo. Era una donna creativa e intelligente che non si limitò ad assumere un atteggiamento passivo, ma volle essa stessa imparare a dipingere e a scrivere poesie. Una volta innamorato, Rossetti decise di emanciparsi dalla famiglia andando a vivere con Lizzy pur non avendo alcuna intenzione di sposarla e accampando mille scuse tutte le volte che lei glielo chiedeva. In realtà Il pittore temeva la madre e le sorelle, che non vedevano di buon occhio il matrimonio del primogenito con una donna di umili origini, spingendolo a ricercare una fidanzata possibilmente italiana e ancor meglio benestante.
Ad aggravare le cose ci si mise anche la salute di Elizabeth: forse soffriva di depressione, forse aveva una predisposizione alle malattie polmonari, sta di fatto che, posando per un quadro di John Everett Millais si ammalò. L'opera doveva rappresentare un episodio dell'Amleto, quando Ofelia, impazzita, si getta nel fiume e annega. Per copiare la sua modella Millais l'aveva fatta immergere in una vasca d'acqua riscaldata da lampade sottostanti che una volta si spensero, lasciando la ragazza a mollo nell'acqua gelida. Lei non volle lamentarsi ma si beccò una polmonite da cui non si rimise mai del tutto, curandosi col laudano, una tintura d'oppio che al tempo si trovava facilmente in commercio e che serviva come antidolorifico. 
E questi non erano gli unici problemi tra i due: con gli anni il giovane farfallone si dimostrò infedele e la tradì con Annie Miller prima e Fanny Cornforth poi, due belle donne che gli fecero da modelle: alla seconda, una bionda carnosa che col tempo sarebbe diventata la governante di casa Rossetti, l'artista dedicò – oltre che diversi disegni - un'opera importante: “Bocca baciata”, titolo tratto da una frase del Decamerone. Intanto Lizzy stava sempre peggio finché una dose eccessiva di laudano la mandò in overdose spingendo finalmente il suo uomo a sposarla, dopo quasi un decennio di convivenza. Troppo tardi: l'anno successivo la donna partorì una bimba nata morta e, non resistendo a quella vita difficile, assunse (forse volontariamente) una dose massiccia di droga, lasciando il marito disperato e travolto da troppo tardivi sensi di colpa, al punto che con un gesto teatrale decise di far seppellire le sue poesie nella bara; qualche anno dopo ci ripensò e fece riaprire la cassa per recuperarle – come in un macabro racconto di Edgard Allan Poe - trovandole avviluppate nei lunghi capelli della morta che avevano continuato a crescere.
Rossetti aveva una natura inquieta, originale, sensuale e forse morbosa, e amava troppo le donne per rimanere fedele alla memoria di Elizabeth: lei restò sempre il suo ideale femminile, ma la cosa non gli impedì di cercare altre avventure scelte tra le ragazze che dipingeva. La immortalò in un quadro “Beata Beatrix” - in cui, con gli occhi chiusi, tiene tra le mani i fiori del papavero da oppio che le vengono portati da una colomba rossa – e continuò a rappresentare bellissime donne dei tempi andati tutte caratterizzate da labbra piene, occhi grandi e foltissimi capelli, in una sorta di ripetizione quasi ossessiva del tipo fisico della moglie. Dopo la sua morte si era trasferito a Tudor House, una bella casa con un grande giardino dove aveva dato sfogo a un'altra sua passione, il collezionismo di mobili antichi, porcellane olandesi bianco-blu, bronzi cinesi, vasi riempiti di piume di pavone e ogni genere di bric-à-brac. Non era una cosa insolita per quei tempi in cui era esplosa la mania dell'esotismo, ma il massimo dell'originalità fu il serraglio di animali esotici di cui l'artista si circondò: un canguro, un armadillo, un camaleonte, vari uccelli tra cui un corvo, un allocco, e naturalmente un pappagallo parlante. Non mancava nemmeno un vombato, un piccolo marsupiale australiano che scorrazzava per la casa e dormiva sul tavolo da pranzo.
Aveva anche trovato altre modelle: utilizzò Alexa Wilding, per realizzare “Monna Vanna”, ritratto idealizzato della donna di Guido Cavalcanti, e “Venus verticordia” (che apre i cuori), un acquerello molto sensuale che scandalizzò John Ruskin, talmente rigido in quanto a morale da sopportare a malapena la vista dei nudi classici del British Museum. I due amici ruppero la relazione, mentre Dante Gabriel si perse dietro una nuova fiamma, la mora Jane Burden moglie di un suo amico, William Morris, anche lui poeta oltre che architetto e decoratore, che sapeva della storia e tacitamente diede il consenso. E' appunto lei che compare negli ultimi dipinti dell'artista come Persefone, moglie di Ade, o Astarte, la grande dea fenicia e cananea della fertilità e della guerra. Queste opere, più cupe delle precedenti, furono realizzate una decina di anni prima della morte di Rossetti. Il pittore si stava esaurendo: era depresso e soffriva di insonnia e per curarsi ingurgitava quantità notevoli di cloralio idrato, un farmaco sedativo e ipnotico che accompagnava col whisky in un cocktail micidiale che lo portò a manifestare vere e proprie forme psicogene, come la certezza che il fantasma di Lizzy venisse a trovarlo. Era inoltre convinto di essere odiato e perseguitato: dopo la pubblicazione delle sue poesie, accompagnata da una corale reazione di scandalizzato perbenismo, cercò il suicidio trangugiando un'intera bottiglia di laudano ma riuscì a sopravvivere. 
Aveva appena compiuto cinquant'anni, era ingrassato e malato e cominciò a essere soggetto ad attacchi di paralisi, causati certamente dai micidiali miscugli che ingeriva. Solo dopo la sua morte nel 1881, la bigotta società vittoriana si accorse di lui e dei suoi lavori: furono organizzate due importanti mostre antologiche e finalmente il pubblico poté apprezzarne la grandezza artistica che lui non aveva mai voluto pubblicizzare. 

Fonti:
Elizabeth Lunday, Vita segreta dei grandi artisti, Electa