Piero
di Benedetto de' Franceschi, comunemente noto come Piero della
Francesca, aveva probabilmente una quarantina d’anni quando dipinse
la Madonna del Parto per l’antica chiesa di Santa Maria Momentana
ai piedi della collina di Monterchi, paesetto della Val Tiberina poco
distante da Borgo Sansepolcro, suo luogo natale. Artista pienamente
affermato e pressato da commissioni prestigiose per le più
importanti corti rinascimentali italiane, era sempre rimasto legato
alla sua terra e al suo paese d’origine, dove viveva la sua
famiglia e dove esercitava cariche pubbliche nel consiglio comunale.
Non meraviglia quindi che, forse dopo la morte della madre Francesca
nel 1459, gli sia stato affidato l’incarico per l’affresco
rappresentante una Madonna gravida affiancata da due angeli.
Stabilire date certe per l’opera di Piero è tuttora un problema
quasi insolubile, data la scarsità delle fonti documentali e i molti
suoi lavori andati purtroppo distrutti; sappiamo però che nello
stesso periodo era stato incaricato di dipingere il “Ciclo della
vera Croce” per la chiesa di San Francesco ad Arezzo, che distava
una giornata di cavallo da Monterchi. Probabilmente interruppe
l’opera aretina e si recò in paese, dove in un paio di settimane
il lavoro fu finito.
L’immagine
della gravidanza della Vergine è piuttosto insolita nell’arte
italiana. Il dogma di Maria genitrice e madre di Dio era stato
sancito un millennio prima dal concilio di Efeso, ma la sua
interpretazione figurativa era stata sempre collegata agli episodi
dell’Annunciazione e della nascita di Gesù o semplicemente
tradotta nell’effigie di Lei col Bambino in grembo. La gestazione,
un fatto così umano e palpabile, non era facile da rappresentare
senza evitare riferimenti alla sessualità e sottolineando in più
che il concepimento era avvenuto senza l’intervento maschile, che
la purezza di Maria era intatta e che la sua divinità la metteva al
di sopra di ogni consuetudine terrena. Il tema della maternità
miracolosa della Vergine aveva trovato posto nell’arte greco -
bizantina nell’immagine della Platytera (ossia “più ampia”perché
porta in seno la potenza del redentore), una figura con un medaglione
sul petto al cui centro risplende l’infante divino. L’idea del
corpo-involucro si era sviluppata nel medioevo europeo in forma
scultorea nelle insolite e curiose raffigurazioni della Madonna con
uno scomparto scavato nel ventre da cui spunta un piccolo Gesù. Ma a
parte dogma e teologia, in un’epoca in cui mettere al mondo un
figlio era una questione pericolosa era inevitabile che la Madre
divina attirasse la devozione popolare nel suo ruolo di protettrice
delle partorienti. In Toscana la rappresentazione della Madonna
gravida – spesso con un libro in mano, simbolo del Verbo – si era
diffusa nel medioevo: sul volume a volte è dipinto il primo verso
del Magnificat, il cantico di ringraziamento che – nel Vangelo
secondo Luca - Maria alza al cielo incontrando la cugina Elisabetta,
incinta pure lei di Giovanni Battista.
Con
Piero della Francesca il libro scompare, mentre la Vergine si
manifesta sotto un sontuoso baldacchino che ricorda una tenda da
campo ma anche un tabernacolo eucaristico, divina e umana al tempo
stesso, piena di dignità e di mistero. Questa solida ragazza toscana
vestita di azzurro, é messa leggermente di tre quarti per
evidenziare la curva gonfia del ventre su cui lei posa la mano con
grazia leggera in un gesto protettivo comune alle donne in attesa.
Un capolavoro assoluto su cui i critici d’arte hanno già scritto
tutto: chi la racconta come una “giovane montanina che venga sulla
porta della carbonaia” (Longhi), alludendo al realismo quasi
rustico della figura, chi ne paragona lo sguardo assorto all’arte
buddhista (Kenneth Clark); chi la vede come una “Demetra cristiana”
(Charles De Tolnay), chi per spiegare l’origine dell’idea di
Piero ricorre all’antichissima preghiera: “Ave Maria, piena di
grazia, il Signore è con te, tu sei benedetta fra le donne e
benedetto il frutto del tuo ventre, Gesù” (Paolucci).
La
devozione verso la Vergine era molto diffusa nel territorio, tant’è
che quando Piero iniziò il suo affresco in Santa Maria Momentana fu
costretto a sovrapporlo a una precedente immagine della Madonna che
allatta, iconografia collegata alla presenza in zona di fonti termali
che si credeva potessero far tornare il latte alle puerpere; il
culto risaliva all’antichità pagana, come testimoniano le
statuette votive rivenute in loco. Attorno alla Santa Madre ruotava
un mondo femminile che – alle prese con problemi di sterilità e di
gravidanza – si rivolgeva a Lei per intercedere la grazia di avere
figli maschi e sani, in un’epoca in cui la colpa dell’infertilità
o della nascita di bambine andava tutta e solo alle donne, che
correvano oltretutto il rischio di essere emarginate socialmente. Fu
così che il capolavoro del pittore diventò – come era normale per
quei tempi – una sacra icona a cui rivolgersi per protezione e
conforto, avviando una venerazione talmente viva e partecipe che
sarebbe durata nei secoli.
La
maestosa e soprannaturale bellezza della Madonna del Parto restò
fortunosamente immune dalle distruzioni degli uomini e della natura:
nel XVIII secolo la chiesa fu parzialmente demolita per fare spazio
al cimitero locale ma si decise di lasciare una cappelletta per
custodire l’affresco; in seguito due terremoti – l’ultimo dei
quali nel 1917 – danneggiarono parzialmente il dipinto che dovette
essere temporaneamente rimosso. Ricollocata di nuovo al suo posto la
Madonna arrivò intatta fino alla seconda guerra mondiale: a quel
tempo Arezzo era battuta dai bombardamenti, e due alti funzionari
dell’Università di Firenze e delle Gallerie fiorentine si
diressero a Monterchi con un autocarro, per prelevare e portare al
sicuro quel capolavoro dell’arte rinascimentale italiana. Quello
che seguì è raccontato in uno bell’articolo di Piero Calamandrei
sulla rivista “Il ponte”, marzo 1954: “Si sparse subito tra i
paesani la voce che fossero tedeschi travestiti, venuti a rubare la
Madonna: e invano andarono in cerca del podestà e del curato, che al
primo annunzio del loro arrivo si erano squagliati per non farsi
complici del trafugamento”. Alla fine trovarono una donna del posto
in possesso della chiave, ma quella cominciò a strillare e a
chiamare gente, che accorse e tentò di comperare i due presunti
nazisti offrendo farina e prosciutti finché, visto che erano
irremovibili, qualcuno andò a suonare le campane. “A quel
richiamo” – continua l’articolo - “cominciò a radunarsi una
folla sempre più minacciosa di paesani e di contadini armati di
randelli e di zappe. Alla fine, i due carabinieri di Monterchi,
richiamati dalle grida, riuscirono ad issare i due valentuomini
sull’autocarro vuoto, che si mise in salvo a stento, riportando con
sé, invece della Madonna, i primi assaggi di un carico di
bastonate”.
Ormai
le autorità avevano capito l’antifona e quando negli anni Novanta
si trattò di fare un intervento di restauro, invece di trasportare
l’affresco a Firenze fu deciso di allestire un laboratorio in un
locale edificio scolastico in disuso, dove è tuttora visibile chiuso
in una teca climatizzata. Ma la disputa non era finita. Dopo il
restauro infatti, si aprì una lunga querelle tra il Comune di
Monterchi, la Soprintendenza ai monumenti e la Diocesi di Arezzo,
relativa al possesso dell'opera e alla scelta della sua sede
definitiva, che doveva anche garantire una risposta ai bisogni di un
culto ancora vivo. Si è anche costituito un comitato “La Madonna
dei Monterchiesi”, che difende a spada tratta il dipinto come
proprietà esclusiva della comunità e i cui componenti, quando è
stato chiesto in prestito per una mostra a Montecitorio, hanno
minacciato di incatenarsi alle porte del museo pur di non spostare di
un millimetro il prezioso e delicato capolavoro di Piero. Il quale,
in attesa della nuova collocazione – probabilmente in un convento -
se ne sta tuttora nel suo involucro protettivo, pronto ad offrirsi
all’ammirazione di tutti, comprese le donne in stato di gravidanza
che – ovviamente – non pagano il biglietto.
Fonti:
Pier Francesco Greci, La Madonna del parto, Centro studi aretini
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