domenica 4 giugno 2017

La Madonna contesa

Piero di Benedetto de' Franceschi, comunemente noto come Piero della Francesca, aveva probabilmente una quarantina d’anni quando dipinse la Madonna del Parto per l’antica chiesa di Santa Maria Momentana ai piedi della collina di Monterchi, paesetto della Val Tiberina poco distante da Borgo Sansepolcro, suo luogo natale. Artista pienamente affermato e pressato da commissioni prestigiose per le più importanti corti rinascimentali italiane, era sempre rimasto legato alla sua terra e al suo paese d’origine, dove viveva la sua famiglia e dove esercitava cariche pubbliche nel consiglio comunale. Non meraviglia quindi che, forse dopo la morte della madre Francesca nel 1459, gli sia stato affidato l’incarico per l’affresco rappresentante una Madonna gravida affiancata da due angeli. Stabilire date certe per l’opera di Piero è tuttora un problema quasi insolubile, data la scarsità delle fonti documentali e i molti suoi lavori andati purtroppo distrutti; sappiamo però che nello stesso periodo era stato incaricato di dipingere il “Ciclo della vera Croce” per la chiesa di San Francesco ad Arezzo, che distava una giornata di cavallo da Monterchi. Probabilmente interruppe l’opera aretina e si recò in paese, dove in un paio di settimane il lavoro fu finito.
L’immagine della gravidanza della Vergine è piuttosto insolita nell’arte italiana. Il dogma di Maria genitrice e madre di Dio era stato sancito un millennio prima dal concilio di Efeso, ma la sua interpretazione figurativa era stata sempre collegata agli episodi dell’Annunciazione e della nascita di Gesù o semplicemente tradotta nell’effigie di Lei col Bambino in grembo. La gestazione, un fatto così umano e palpabile, non era facile da rappresentare senza evitare riferimenti alla sessualità e sottolineando in più che il concepimento era avvenuto senza l’intervento maschile, che la purezza di Maria era intatta e che la sua divinità la metteva al di sopra di ogni consuetudine terrena. Il tema della maternità miracolosa della Vergine aveva trovato posto nell’arte greco - bizantina nell’immagine della Platytera (ossia “più ampia”perché porta in seno la potenza del redentore), una figura con un medaglione sul petto al cui centro risplende l’infante divino. L’idea del corpo-involucro si era sviluppata nel medioevo europeo in forma scultorea nelle insolite e curiose raffigurazioni della Madonna con uno scomparto scavato nel ventre da cui spunta un piccolo Gesù. Ma a parte dogma e teologia, in un’epoca in cui mettere al mondo un figlio era una questione pericolosa era inevitabile che la Madre divina attirasse la devozione popolare nel suo ruolo di protettrice delle partorienti. In Toscana la rappresentazione della Madonna gravida – spesso con un libro in mano, simbolo del Verbo – si era diffusa nel medioevo: sul volume a volte è dipinto il primo verso del Magnificat, il cantico di ringraziamento che – nel Vangelo secondo Luca - Maria alza al cielo incontrando la cugina Elisabetta, incinta pure lei di Giovanni Battista.
Con Piero della Francesca il libro scompare, mentre la Vergine si manifesta sotto un sontuoso baldacchino che ricorda una tenda da campo ma anche un tabernacolo eucaristico, divina e umana al tempo stesso, piena di dignità e di mistero. Questa solida ragazza toscana vestita di azzurro, é messa leggermente di tre quarti per evidenziare la curva gonfia del ventre su cui lei posa la mano con grazia leggera in un gesto protettivo comune alle donne in attesa. Un capolavoro assoluto su cui i critici d’arte hanno già scritto tutto: chi la racconta come una “giovane montanina che venga sulla porta della carbonaia” (Longhi), alludendo al realismo quasi rustico della figura, chi ne paragona lo sguardo assorto all’arte buddhista (Kenneth Clark); chi la vede come una “Demetra cristiana” (Charles De Tolnay), chi per spiegare l’origine dell’idea di Piero ricorre all’antichissima preghiera: “Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te, tu sei  benedetta fra le donne e benedetto il frutto del tuo ventre, Gesù” (Paolucci).
La devozione verso la Vergine era molto diffusa nel territorio, tant’è che quando Piero iniziò il suo affresco in Santa Maria Momentana fu costretto a sovrapporlo a una precedente immagine della Madonna che allatta, iconografia collegata alla presenza in zona di fonti termali che si credeva potessero far tornare il latte alle puerpere; il culto risaliva all’antichità pagana, come testimoniano le statuette votive rivenute in loco. Attorno alla Santa Madre ruotava un mondo femminile che – alle prese con problemi di sterilità e di gravidanza – si rivolgeva a Lei per intercedere la grazia di avere figli maschi e sani, in un’epoca in cui la colpa dell’infertilità o della nascita di bambine andava tutta e solo alle donne, che correvano oltretutto il rischio di essere emarginate socialmente. Fu così che il capolavoro del pittore diventò – come era normale per quei tempi – una sacra icona a cui rivolgersi per protezione e conforto, avviando una venerazione talmente viva e partecipe che sarebbe durata nei secoli.
La maestosa e soprannaturale bellezza della Madonna del Parto restò fortunosamente immune dalle distruzioni degli uomini e della natura: nel XVIII secolo la chiesa fu parzialmente demolita per fare spazio al cimitero locale ma si decise di lasciare una cappelletta per custodire l’affresco; in seguito due terremoti – l’ultimo dei quali nel 1917 – danneggiarono parzialmente il dipinto che dovette essere temporaneamente rimosso. Ricollocata di nuovo al suo posto la Madonna arrivò intatta fino alla seconda guerra mondiale: a quel tempo Arezzo era battuta dai bombardamenti, e due alti funzionari dell’Università di Firenze e delle Gallerie fiorentine si diressero a Monterchi con un autocarro, per prelevare e portare al sicuro quel capolavoro dell’arte rinascimentale italiana. Quello che seguì è raccontato in uno bell’articolo di Piero Calamandrei sulla rivista “Il ponte”, marzo 1954: “Si sparse subito tra i paesani la voce che fossero tedeschi travestiti, venuti a rubare la Madonna: e invano andarono in cerca del podestà e del curato, che al primo annunzio del loro arrivo si erano squagliati per non farsi complici del trafugamento”. Alla fine trovarono una donna del posto in possesso della chiave, ma quella cominciò a strillare e a chiamare gente, che accorse e tentò di comperare i due presunti nazisti offrendo farina e prosciutti finché, visto che erano irremovibili, qualcuno andò a suonare le campane. “A quel richiamo” – continua l’articolo - “cominciò a radunarsi una folla sempre più minacciosa di paesani e di contadini armati di randelli e di zappe. Alla fine, i due carabinieri di Monterchi, richiamati dalle grida, riuscirono ad issare i due valentuomini sull’autocarro vuoto, che si mise in salvo a stento, riportando con sé, invece della Madonna, i primi assaggi di un carico di bastonate”.

Ormai le autorità avevano capito l’antifona e quando negli anni Novanta si trattò di fare un intervento di restauro, invece di trasportare l’affresco a Firenze fu deciso di allestire un laboratorio in un locale edificio scolastico in disuso, dove è tuttora visibile chiuso in una teca climatizzata. Ma la disputa non era finita. Dopo il restauro infatti, si aprì una lunga querelle tra il Comune di Monterchi, la Soprintendenza ai monumenti e la Diocesi di Arezzo, relativa al possesso dell'opera e alla scelta della sua sede definitiva, che doveva anche garantire una risposta ai bisogni di un culto ancora vivo. Si è anche costituito un comitato “La Madonna dei Monterchiesi”, che difende a spada tratta il dipinto come proprietà esclusiva della comunità e i cui componenti, quando è stato chiesto in prestito per una mostra a Montecitorio, hanno minacciato di incatenarsi alle porte del museo pur di non spostare di un millimetro il prezioso e delicato capolavoro di Piero. Il quale, in attesa della nuova collocazione – probabilmente in un convento - se ne sta tuttora nel suo involucro protettivo, pronto ad offrirsi all’ammirazione di tutti, comprese le donne in stato di gravidanza che – ovviamente – non pagano il biglietto.

Fonti: 
Pier Francesco Greci, La Madonna del parto, Centro studi aretini

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