Carne di agnello o di
capretto, pane azzimo, erbe amare, e probabilmente charoset, una
salsa a base di mele, mandorle, prugne, noci, datteri tritati, miele
e vino: questi forse furono gli ingredienti dell’Ultima cena
celebrata da Cristo e gli Apostoli in occasione della Pesach, la
Pasqua ebraica. Benché i Vangeli non siano chiari in proposito il
menù si può desumere dalla descrizione che ne da il libro
dell’Esodo, quando gli ebrei consumarono in fretta e furia il loro
pasto serale prima di lasciare l’Egitto e partire alla volta della
Terra promessa, con l’ordine divino di ricordare ogni anno
l’evento. Nella religione cattolica la cena si è trasformata nella
celebrazione non tanto dell’esodo quanto dell’istituzione
eucaristica e le immagini relative sono diventate nei secoli
l’occasione per proporre ogni sorta di vivande molto lontane dalla
tradizione veterotestamentaria; arricchendosi anche di inattesi
ospiti che niente avevano a che fare con gli Apostoli, come cani,
gatti o pavoni. Fantasie di artisti? No di certo. Il pensiero
medievale non considerava in modo materialistico le cose di questa
terra, ma vedeva negli eventi, nella natura e perfino negli oggetti
una corrispondenza col soprannaturale di cui diventavano un simbolo.
Così una mela non era semplicemente un frutto gustoso e pieno di
vitamine, ma il segno tangibile del peccato di Adamo ed Eva; il
pavone – la cui carne già in epoca romana era considerata
incorruttibile – rappresentava invece la perfezione dell’uomo non
guastato dal peccato e destinato all’immortalità. L’arte era una
metafora del sublime, in un intrico di significati che a noi moderni
rende non facile la lettura delle opere dell’epoca.
Durante il medioevo la
rappresentazione del sacro simposio mantenne uno stile sobrio e
discreto: nell’immagine più antica del Cenacolo – quella dei
mosaici della basilica di Sant’Apollinare nuovo a Ravenna – Gesù
e gli Apostoli, semi sdraiati davanti a una tavola che ricorda le
mense latine, sono in procinto di mangiare alcune pagnotte e due
grossi pesci. Simbolo cristologico per eccellenza, questo animale
veniva tracciato come segno di riconoscimento dai cristiani della
Roma pagana perché le lettere della parola greca “ichthýs”,
pesce, erano l’acronimo di “Iesùs CHristòs THeù HYiòs Sotèr”,
ossia “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”. Nel mosaico
ravennate Giuda non si distingue dagli altri dodici, ma con l’andar
del tempo assumerà connotazioni sempre più consone al suo ruolo di
traditore: brutto, scuro e cattivo, spesso posto dall’altra parte
del tavolo e con i denari in saccoccia.
![](https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiNiuURHdDwgmYBE5pOsMYtzU6pUzMbLiEUk9MKQmQOb_XJ6nmRGRbPlYdAgFbyewGgTPV-1Cdu9EjXn8qmGq8iHqyLRBN4fX-tzpPHNvOo9juOugMAPMfiX9fOn4BnXjCv0XPdAQgupM0/s320/Ignoto_del_XV_secolo_Ultima_Cena_Boccioleto_Alpe_Seccio.jpg)
Durante il rinascimento,
molto più laico e godereccio, le portate dell’Ultima cena
aumentarono quasi del 70 %, segno evidente di un cambiamento dei
gusti alimentari, mentre la tavola si riempì di calici e bottiglie
in cristallo, dipinti da artisti memori delle sontuose imbandigioni
delle corti signorili. Il tema del Cenacolo fu posto a decorazione
dei refettori conventuali occupando un’intera parete, mentre l’
immagine si fissò in alcune forme convenzionali che permettevano di
riconoscere a colpo d’occhio i personaggi del dramma e la gamma dei
sentimenti espressi. A Firenze in particolare il soggetto conobbe
una notevole fortuna e fu un banco di prova per pittori come Andrea
del Castagno, Pietro Perugino, Andrea del Sarto, Domenico
Ghirlandaio: a quest’ultimo si ascrivono ben tre rappresentazioni
della scena, tra cui il Cenacolo di Ognissanti, uno spazio
rettangolare parzialmente aperto su un giardino dove sul tavolo,
ricoperto da una elegante tovaglia decorata a punto Assisi, sono
posati piatti con resti di cibo, pane, vino, lattuga (simbolo della
penitenza) arance (dorati frutti del paradiso) e 37 ciliegie
che spiccano scarlatte sul bianco
telo di lino, mentre due animali cristologici, il pavone e il
cardellino, osservano dall’alto la cerimonia.
Il più famoso Cenacolo quattrocentesco è però quello di Leonardo da Vinci nel refettorio del convento annesso al Santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano: il dipinto come è noto, si degradò molto presto a causa della particolare tecnica con cui era stato realizzato, subendo nel tempo ulteriori perdite dovute a interventi maldestri di ridipintura, per rischiare la distruzione totale durante il bombardamento di Milano del 1943. Il lungo e complesso restauro durato ben 17 anni ha permesso di scoprire pietanze degne della corte di Ludovico il Moro, in particolare anguille alla griglia guarnite con fette d’arancia; l’artista amava la cucina e tra i suoi appunti ci sono anche ricette a base di questo e di altri tipi di pesce conditi, come usava all’epoca, con miele e molti tipi di spezie.
L’Ultima cena del
toscano Alessandro Allori è un pasto di magro che sarebbe piaciuto a
un vegano. I lussuosi piatti di ceramica decorata contengono ogni
sorta di alimento vegetale la cui forma fu accuratamente copiata
dagli erbari dipinti per la famiglia Medici da Jacopo Ligozzi e che
costituiscono un’allegoria della natura divina di Cristo, della sua
passione e dell’Eucarestia: alla prima si associano mandorle, pere,
mele cotogne, datteri, olive e perfino castagne, il cui albero –
che germoglia dopo la potatura – rappresenta la Resurrezione,
mentre alla seconda sono collegati il cardo, il giglio e naturalmente
il pane e il vino. Tornando al nord, un buon profumo d’arrosto
emana dalla Cena di Paolo Veronese, mentre in quella di Jacopo
Tintoretto, piove manna dal cielo ed è inserita addirittura quella che sembra
una torta con le candeline. Il più famoso Cenacolo quattrocentesco è però quello di Leonardo da Vinci nel refettorio del convento annesso al Santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano: il dipinto come è noto, si degradò molto presto a causa della particolare tecnica con cui era stato realizzato, subendo nel tempo ulteriori perdite dovute a interventi maldestri di ridipintura, per rischiare la distruzione totale durante il bombardamento di Milano del 1943. Il lungo e complesso restauro durato ben 17 anni ha permesso di scoprire pietanze degne della corte di Ludovico il Moro, in particolare anguille alla griglia guarnite con fette d’arancia; l’artista amava la cucina e tra i suoi appunti ci sono anche ricette a base di questo e di altri tipi di pesce conditi, come usava all’epoca, con miele e molti tipi di spezie.
![](https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjccbCmqo06Zlqw3K2BKi7ILJRUbHNuzJj7QTMQq_WwYmiBwKOi7dsCOJ2YfT9jZ_4Xtrgxq_pEAyHXtBfiOzwLWj5W4khkkyQRQsUiwH0L_B5-b6wwj-seZJ4_pmiU5GcsYqvKX3AzY1s/s400/Gerolamo+Romanino_Ultima+cena_Duomo+di+Montichiari_1535_.jpg)
Tra i molti e curiosi felini “demoniaci”, uno di loro sonnecchia accanto all’apostolo traditore in una pala d’altare di Gerolamo Romanino, in cui tre personaggi offrono anche una lezione di galateo rinascimentale che prescriveva di poggiare i tovaglioli sulla spalla sinistra.
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