lunedì 9 novembre 2015

Il mondo fluttuante di Hokusai, il vecchio pazzo per la pittura

Ukiyo, mondo della sofferenza: questo termine di origine buddhista indicava nel Giappone medievale lo stato di tutti coloro che - dolorosamente attaccati all’esistenza transitoria – ne subivano le conseguenze in un altalenare continuo di speranze e disillusioni. Ma se mentre in Occidente la meditazione sulla caducità delle cose ha dato luogo a funebri fantasie, in Oriente lo stesso tema è stato capace  di innescare commoventi e poetiche riflessioni sulla bellezza breve della vita, splendente e fragile come un fiore. Nel XVII secolo il monaco e poeta Asai Ryoi, interpretava la parola Ukiyo come “mondo fluttuante”, una sorta di filosofia del giorno per giorno: “Vivere momento per momento, volgersi interamente alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere sakè, consolarsi dimenticando la realtà, non preoccuparsi della miseria che ci sta di fronte, non farsi scoraggiare, essere come una zucca vuota che galleggia sulla corrente dell’acqua”. Dal punto di vista artistico, le massime espressioni di questo modo di intendere la vita furono le illustrazioni dei libri popolari a stampa,  genere che fiorì soprattutto tra il XVII e il XX secolo nelle città di Osaka, Kyoto, Edo (l’odierna Tokyo) allora sede dello Shogun, la carica più alta delle forze armate; lì una società colta ed elegante viveva le sue notti nei quartieri del piacere, ritrovo non solo di gaudenti, ma anche di aristocratici in incognito, mercanti, letterati, attori ed editori, e dove le più alte cortigiane tenevano raffinatissimi salotti. 
Da questo ambiente oltre che dalla vita quotidiana, dalla bellezza femminile, dal teatro, dai racconti e romanzi eroici, dalla mitologia, dalla natura e dai paesaggi, gli artisti giapponesi - per i quali non era disdicevole la riproduzione commerciale delle loro opere - trassero ispirazione; il loro stile è caratterizzato da composizioni asimmetriche e prive di prospettiva centrale e da un disegno preciso ed elegante che racchiude campiture di colore piatto e uniforme, escludendo completamente il chiaroscuro.
Uno dei più grandi maestri di questo genere creativo, l’ Ukiyo-e, fu un uomo dai molti nomi nato in un tranquillo sobborgo di Edo, e noto al mondo come Hokusai.  Non si sa esattamente di chi fosse figlio il piccolo Tokitaro, che troviamo per la prima volta gironzolare nella bottega del padre adottivo, un abile artigiano che fabbricava specchi, già appassionato di disegno all’età di sei anni. Nato nel 1760, sarebbe vissuto per 89 anni dedicando tutto il suo tempo al disegno e alla pittura, in una famelica sete di perfezione  che l’avrebbe portato a comporre migliaia di opere e di soggetti: dipinti, stampe, fogli augurali, romanzi illustrati, manuali didattici, sperimentando ogni tecnica, curioso di ogni cosa e raffigurando tutto con inesauribile estro e fantasia. 
Durante la sua vita vagabonda (cambiò casa ben novantatré volte) l’artista assunse fino a un centinaio di nomi, ereditando anche – come era d’uso in Giappone – quelli dei capi delle botteghe di pittura dove aveva lavorato. Diventò Katsushika Hokusai - ossia “studio della stella Polare” - nel 1798 a quasi quarant’anni, quando si realizzò come professionista indipendente. Non c’è soggetto o stile che questo artista non abbia attraversato, esplorando le molte scuole giapponesi e rivisitando anche la prospettiva occidentale  adattata alle tradizioni e al gusto della cultura orientale. Non solo: una volta trovata una nuova vena la elaborava in tutte le maniere possibili, poi – cambiato nome – iniziava con la stessa meticolosità e passione un percorso completamente nuovo, al punto che la sua pittura può sembrare opera di molte mani diverse. Questa creatività instancabile e naturale lo portò in vecchiaia a un’abilità tale da essere chiamato ad esibirsi in prove pubbliche di bravura in cui era capace di passare da formati giganteschi a miniature infinitesimali, come quando correndo con una scopa inzuppata di inchiostro su un rotolo di carta lungo duecento metri, disegnò la figura di  Daruma, il fondatore delle Zen, o quando con un pennello minuscolo dipinse su un chicco di grano due passeri in volo.

A cinquantacinque anni Hokusai pubblicò il primo volume dei Manga, un termine da lui inventato e che si riferisce agli schizzi  bizzarri contenuti in una serie monumentale di album che avrebbe  continuato a realizzare per il resto della sua esistenza: si trattava di illustrazioni a stampa in tre colori che dovevano fornire ad altri artisti una guida al disegno. Enorme il raggio degli argomenti, sempre sulla scia della tradizione giapponese ma trattati con un realismo ironico e caricaturale e un’attenta ricerca psicologica dei moti d’animo umani. Gli utensili e le armi erano rappresentati con la stessa imparziale attenzione dei corpi, perché in Giappone non esisteva la scala di valori tipicamente occidentale che divideva le arti in “maggiori” e “minori” ma tutto era sullo stesso piano d’importanza, facendo parte dell’infinita varietà del creato. Il sessantesimo anno di vita di  Hokusai coincise con un ulteriore cambiamento di genere che si rivolse a sviluppare il tema del paesaggio. Le stampe policrome furono divise in serie: il “Viaggio tra le cascate giapponesi” le “Vedute insolite di famosi ponti giapponesi”, la celeberrima “Trentasei vedute del monte Fuji” che contiene “L’onda presso la costa di Kanagawa”, meglio nota come “La grande onda”; se nella pittura occidentale il soggetto si impone quasi sempre in primo piano, in quest’ultimo gruppo di stampe la montagna sacra del Giappone compare spesso in fondo o a lato della scena come un elemento immobile, divino e fuori dal tempo, seminascosto tra le cose del mondo in movimento, le nebbie, gli alberi, le colline, la schiuma del mare e il brulichio degli uomini.
Il carattere incontentabile ed eccentrico di Hokusai e la sua ricerca di libertà gli impedirono di  inserirsi negli ambienti della moda e del potere. Si definiva “il contadino di Katsushika”, il distretto di cui faceva parte il suo sobborgo natale, e visse tutta la vita in orgogliosa povertà rifiutando in alcune occasioni di vendere le sue opere se il cliente non gli garbava. Ebbe due mogli e sei figli, e nonostante in vecchiaia fosse ormai consacrato come artista famoso, dovette affrontare una serie ulteriore di problemi economici causati anche da dissidi familiari che gli prosciugarono le finanze. 

Nonostante ciò il livello qualitativo dei suoi lavori - da cui non si fece mai distrarre – rimase sempre straordinariamente alto, e anche se gli venivano pagate cifre miserabili non si scoraggiò e continuò a lavorare come un forsennato.  Nella postfazione alle “Trentasei vedute del Fuji” scrivendo di sé si firmò “Manji il vecchio pazzo per la pittura”: “Dall'età di sei anni ho la mania di copiare la forma delle cose, e sono cinquant'anni che pubblico disegni; tra quel che ho raffigurato non c'è nulla degno di considerazione. A settantatre anni ho a malapena intuito l'essenza della struttura di animali ed uccelli, insetti e pesci, della vita di erbe e piante e perciò a ottantasei progredirò oltre; a novanta ne avrò approfondito ancor più il senso recondito e a cento anni avrò forse veramente raggiunto la dimensione del divino e del meraviglioso. 
Quando ne avrò centodieci, anche solo un punto o una linea saranno dotati di vita propria.” Non sarebbe arrivato al secolo: morì dopo una breve malattia senza aver mai abbandonato passione ed entusiasmo. 
Fonti:
Henri Focillon, Hokusai, Edizioni Alfa
Hokusai, il vecchio pazzo per la pittura, catalogo Electa

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