Inserita nel
387 dal vescovo Ambrogio di Milano tra i "cadaveri di città
semidiroccate", Modena era all’inizio del medioevo il fantasma della ricca
e fiorente “Mutina” romana: travolta dalle invasioni barbariche e devastata da
violente alluvioni, invasa dalle acque a dalla vegetazione, era stata infatti abbandonata
dai suoi abitanti. A cominciare dal IX secolo, grazie ai lavori di sistemazione
promossi dai vescovi che governavano il territorio, il piccolo borgo in rovina
cominciò a ripopolarsi, dotandosi di una cerchia di mura e di una prima chiesa
costruita per contenere le spoglie di San Geminiano, che era stato vescovo
della città nel IV secolo e a cui l’agiografia attribuisce – oltre a proprietà
taumaturgiche – anche la capacità di scacciare i demoni. Nel religioso medioevo le cattedrali erano il
luogo dell’identità cittadina ed importanti centri di aggregazione che facevano
capo al Vescovo, la massima autorità spirituale
e politica che si opponeva alle prepotenze delle famiglie feudali. Questi
edifici avevano inoltre la funzione di reliquiario poiché contenevano le
spoglie del santo o del martire locale, e riflettevano lo spirito cristiano del
tempo che riteneva che la vita fosse da intendere come una preparazione
all’avvento del regno di Dio: l’esistenza umana era rappresentata nelle
decorazioni come breve, incerta e faticosa e inevitabilmente coronata dalla
morte che poteva aprire le porte al regno dei beati o alla rovente palude
dell’inferno.
Dopo il
Mille Modena fu coinvolta nei mutamenti di assetto politico e nelle nuove iniziative economiche che in
tutta Europa accompagnavano la rinascita dei comuni, sostenuta dalla fioritura
di un rinnovato linguaggio culturale che si esprimeva soprattutto nella
costruzione di importanti cattedrali romaniche. Il caso della città è però
particolare rispetto a molte altre: il Vescovo era al momento vacante e fu solo
grazie all’iniziativa della popolazione e del clero cittadino che fu deciso - in
autonomia dal potere feudale e religioso – di demolire la vecchia chiesa ormai
pericolante e di costruirne una nuova più grande e più bella. La storia di questa
orgogliosa libertà di scelta è narrata in un prezioso documento conservato
nell’Archivio capitolare del duomo, la “Relatio de Innovatione Ecclesie Sancti
Geminiani ac de Translatione Eius Beatissimi Corporis”, in cui si racconta la
ricerca in luoghi lontani dell’architetto Lanfranco, dell’inizio dei lavori nel 1099, e della traslazione del corpo di
Geminiano avvenuta nel 1106 non senza notevoli discussioni nella comunità
locale. Alcune miniature vivacissime illustrano la cronaca dandoci uno spaccato
della società modenese dell’epoca e rappresentandone gli attori: dall’architetto,
raffigurato in posa di dignità col bastone del comando, agli operai
scarmigliati che scavano e portano le gerle coi materiali, alla gran contessa
Matilde di Canossa, che compose ogni
questione non senza la scorta di cittadini e cavalieri in armi. Anche se non
sappiamo nulla di Lanfranco il duomo, sua unica opera nota, esprime la sua
conoscenza dell’arte romanica lombarda e di quella classica, basata sullo
studio degli autori latini;
il progetto iniziale – poi modificato da maestranze
successive – consisteva in un’austera basilica paleocristiana coperta da
capriate in legno (più tardi sostituite con volte in muratura) e dotata di finto
matroneo, il cui motivo unificante – esterno e interno - era costituito da una
serie di trifore incapsulate in un unico arco. Lanfranco utilizzò inoltre una
grande varietà di materiali lapidei provenienti dal nord Italia, mescolandoli
con elementi di spoglio recuperati dagli scavi della Mutina romana e preferendo
colori chiari che danno all'edificio un’inconfondibile tonalità bianco-rosata.
La
straordinaria decorazione scultorea che si estende sulla facciata, sui portali,
sui capitelli, sulle metope che coronano i contrafforti laterali, si deve
invece in parte a Wiligelmo - di cui non abbiamo altre notizie se non la firma
auto elogiativa su un pannello accanto alla porta d’ingresso - in parte a
maestri che sulla scia del suo stile operarono in epoca successiva. In questi
bassorilievi si dispiega con vivacissima fantasia il sapere medievale, che
spazia dalla conoscenza della Bibbia e dei testi sacri a temi dell’antichità
classica rivisitati con spirito cristiano; dalle novelle popolari che vengono
qui presentate come esempi morali, alla riproposizione di argomenti tratti dai
Bestiari - una particolare categoria di libri che descrivevano, attingendo al
mito, animali e creature fantastiche - ai cicli delle leggende cavalleresche nord
europee che hanno come protagonista principale il leggendario re Artù.
A parte
i canonici e gli eruditi la gente non sapeva leggere: l’arte aveva innanzitutto
la funzione di istruire sui fatti della religione, sebbene in molte sculture del
duomo emergano racconti profani, probabilmente tramandati di generazione in
generazione e caratterizzati da una forte vitalità popolaresca e contadina. Il
programma dei rilievi della facciata riassume la fede e le speranze, i dubbi e
le paure dell’uomo medievale, sottolineando la fugacità dell’esistenza (due
geni funerari che spengono la fiaccola della vita) e la faticosa lotta per la
salvezza spirituale. Il linguaggio di Wiligelmo è rude ed espressivo: il
racconto di Adamo ed Eva nelle storie della Genesi è narrato nei dettagli
essenziali per renderlo più comprensibile al pubblico dei credenti. Sul portale
principale è scandita la tesi del peccato e della redenzione: fra intricati
viluppi vegetali - la “selva oscura” della vita – divampa la lotta tra gli
esseri umani e una selvaggia schiera di leoni, draghi, centauri e creature
immaginarie, mentre allo stesso tempo Patriarchi e Profeti annunciano la venuta
di Cristo e della vera e unica salvezza.
Nei
capitelli, nelle metope e nelle altre porte dell’edificio trionfa l’immaginazione:
in quella detta “della Pescheria”, oltre al ciclo dei Mesi - tema caro al
Medioevo che descrive contadini intenti ai lavori tipici di ogni stagione - sono
scolpiti anche episodi tratti dal patrimonio favolistico classico e da quello
francese: nel “Funerale della volpe”, l’astuto predatore convince due sciocchi galletti
che sta morendo e li prega di seppellirla, per poi agguantarli e divorarseli. Morale:
non siate troppo ingenui o ci rimetterete letteralmente le penne. Altrove si
scoprono riferimenti al “Liber Monstrorum”, una compilazione alto medievale di
notizie mirabili con riferimento a fantastici popoli che si credeva popolassero
il mondo non conosciuto: il catalogo modenese comprende la fanciulla con tre braccia, l'ittiofago dalla zampa equina, la sirena bicaudata, l'ermafrodito.
Quest'ultimo - ora al Museo lapidario del Duomo - rappresenta una donna a gambe spalancate munita di genitali maschili, denominata "la potta di Modena" con riferimento alla posa giudicata oscena e mal tollerata dalla popolazione e dalla soldataglia che ne fece oggetto di atti vandalici e colpi di archibugio. Lo studio delle straordinarie sculture della cattedrale crea non pochi problemi di identificazione e registra continue sorprese: che significa il capitello dove guerrieri che combattono sono violentemente colpiti da dietro da due signore munite si scopa? Il solito, maschilista pregiudizio sul carattere femminile bisbetico e arrogante oppure una manifestazione antimilitarista ante litteram? Forse noi moderni preferiremmo la seconda ipotesi.
Fonti
Sandra
Baragli, Francesca Piccinini, Costruire nel Medioevo, Comune di Modena, Museo
civico d’Arte di Modena
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