Quando nel 1757 vi nacque Antonio Canova, Possagno era un piccolo agglomerato di case situato nella zona pedemontana del Grappa, un’area costellata di cave abitata da artigiani che esercitavano il mestiere di scalpellini e tagliapietre. L’infanzia di “Tonin” – figlio appunto di un povero cavapietre - fu presto funestata dalla morte prematura del padre e dall’allontanamento della madre, che decise di risposarsi e di trasferirsi in un altro paese, lasciando l’educazione del piccolo al nonno Pasino, uomo burbero e stravagante ma anche scalpellino di una certa notorietà. Alla tenera età di sette anni Tonin aveva già la scultura nel sangue e lo dimostrò realizzando un leone in burro per una cena nella villa dei nobili Falier ad Asolo: questa precoce esibizione di bravura gli procurò l’ammirazione del potente padrone di casa che lo fece studiare prima nella bottega di Bernardo Torretti, poi visto che Antonio imparava molto in fretta, presso l’Accademia del Nudo di Venezia. Non aveva ancora vent’anni quando arrivarono le prime commissioni tra cui un gruppo con Dedalo e Icaro, che sarebbe stata esposto alla fiera della Sensa che si teneva ogni anno in città in occasione della festa dell’Ascensione di Cristo.


Un viaggio a Napoli gli aveva permesso di conoscere
meglio le opere emerse dagli scavi archeologici di Pompei. L’avvicinamento
all’arte antica lo ispirò a realizzare una serie di importanti sculture di
soggetto mitologico: Amore e Psiche, Venere e Adone, Ebe, Ercole e Lica e molte
altre che gli permisero di ottenere il successo internazionale. Contemporaneamente
lavorò al monumento funebre di Clemente XIII, un impegno gigantesco che mise
alla prova le sue capacità. La sua tecnica raffinata era basata sullo studio
della statuaria greca: partendo da un bozzetto in creta, ne realizzava poi un
altro a grandezza naturale di cui faceva un calco in gesso in cui erano inseriti
piccoli chiodi (répere). Riportando la posizione dei chiodi sul blocco di marmo
attraverso un pantografo, faceva abbozzare la statua dai suoi assistenti per
riservarsi la finitura con trapano e
vari tipi di scalpello, trattando il marmo con sabbie abrasive sempre più
impalpabili, fino a lucidare perfettamente la materia su cui a volte stendeva
uno strato di cera leggermente colorata per rendere l’idea dell’incarnato.
Gli ultimi anni del secolo non furono facili per
Canova: aveva avuto lutti importanti, tra cui la scomparsa del nonno Pasino,
mentre dalla Francia giungevano le tragiche notizie della Rivoluzione in corso.
Cresciuto a contatto con l’ambiente aristocratico che lo aveva accolto e
aiutato, lo scultore non riuscì ad afferrare l’importanza storica di quelle che
chiamava “lacrimevoli circostanze che divorano il mondo intero” e per alleviare
la depressione si buttò in modo quasi disperato nel lavoro.
La discesa di
Napoleone in Italia e il trattato di Campoformio, che nel 1797 sancì la fine
della Repubblica di Venezia, furono un
colpo ulteriore per lui, nonostante che il Bonaparte, suo grande estimatore, lo
mettesse addirittura sotto la protezione della sua Armata. Volente o nolente
Antonio dovette accontentare il vincitore francese e finì per eseguire uno dopo
l’altro i ritratti idealizzati della famiglia imperiale rappresentati come divinità
greche. Tra queste sculture il suo capolavoro è Paolina Bonaparte in veste di
Venere vincitrice, dove la bella sorella di Napoleone è adagiata seminuda su un
triclinio con una mela in mano, allusiva alla vittoria di Afrodite su Era ed
Atena nel mito del giudizio di Paride. La statua, il cui piedistallo in legno
può essere ruotato, sottolinea l’innovativa concezione canoviana della scultura
che doveva essere fruita da ogni punto di vista senza averne mai uno
privilegiato. Con la caduta di Napoleone Canova si mise di nuovo al
servizio della committenza papale, ottenendo anche il titolo di marchese.

La sua salute
stava declinando: andava ormai per i settanta e da anni soffriva di dolori al
torace, probabilmente dovuti all’uso assiduo del trapano appoggiato con forza
contro le costole. Avrebbe voluto scolpire ancora, pensava con ansia ai lavori
sospesi a Roma, ma la morte lo colse a Venezia nel 1822. Come usava per le salme
dei regnanti il cadavere dello scultore fu smembrato: mentre le spoglie sono
sepolte a Possagno, il cuore si trova nella chiesa veneziana dei Frari. La mano
destra, un tempo custodita presso l’Accademia
di Belle Arti della città lagunare, è stata da poco ricongiunta al corpo.
Fonti:
Canova,
I classici dell’arte, Rizzoli-Skira, RCS quotidiani, 2005
Valeria
Arnaldi, SPQR. Sono pettegoli questi romani, Lit edizioni, 2014
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