domenica 25 dicembre 2016

Pittori, poeti e matti: il processo a Paolo Veronese

Quando nel 1573 Paolo Veronese, uno dei più grandi pittori del rinascimento veneto, completò l’enorme tela con l’Ultima Cena per il convento domenicano dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia, non pensava certamente che quell’opera gli avrebbe procurato grattacapi a non finire. Come nel suo stile, il lavoro era ridondante e ricco di soluzioni fantasiose, a cominciare dall’arioso ambiente palladiano in cui si svolgeva il convito, per continuare col pubblico di commensali e la miriade di servitù che circondava Cristo;  la scena ricordava assai più una festa di lusso in un grande palazzo nobiliare, che una cena tra amici in un più umile locale della Galilea, e soprattutto non dava rilievo alla sacralità dell’evento. Veronese non era nuovo a questo tipo di imprese e il tema del banchetto- da lui già riprodotto anche nella ricchissima tela raffigurante “Le Nozze di Cana”-  gli era particolarmente congeniale perché gli permetteva di esprimere il suo amore per i colori intensi e luminosi e per le vesti e gli oggetti lussuosi. La committenza non aveva mai avuto niente da ridire sulle sue interpretazioni profane di eventi sacri, che anzi erano destinate a refettori conventuali dove evidentemente si mangiava con spirito influenzato dalla laicità del rinascimento. Ma nel caso dell’Ultima Cena le cose andarono in modo diverso perché ci si mise di mezzo l’Inquisizione.
A questo punto è bene fare un passo indietro per spiegare come era cambiata la situazione religiosa in Italia e a Venezia dopo la Riforma protestante, che era tracimata dalla Germania nella penisola già dagli anni Venti del secolo. Per correre ai ripari il Concilio di Trento - chiuso nel 1549 - cercò di ripristinare l’unità della Chiesa cattolica dopo lo scisma voluto da Martin Lutero che aveva contagiato anche parte dell’Europa del nord. Le rigide indicazioni conciliari portarono alla ripresa della medievale e violenta lotta contro le eresie e al tentativo di censura nei riguardi del pensiero e delle opere non conformi alle linee ecclesiastiche. Le nuove dottrine, che avevano cominciato a circolare anche grazie alla recente invenzione della stampa, furono accolte spesso con favore da coloro – patrizi e plebei - che desideravano restaurare la purezza della Chiesa primitiva. In particolare esse trovarono terreno fertile nel carattere cosmopolita della Repubblica di Venezia, dove era presente una colonia di mercanti tedeschi con un loro Fondaco, e dove furono assecondate anche dalla lunga tradizione di tolleranza e indipendenza del governo. Questa sorta di pax sociale però non durò a lungo perché dagli anni Quaranta cominciarono ad accendersi i primi roghi di libri eretici, per poi passare alla persecuzione di tutti coloro che professavano idee luterane e calviniste. Se una differenza c’era stava nella modalità delle esecuzioni capitali: nei territori veneti infatti i simpatizzanti
del protestantesimo erano arrostiti pubblicamente, mentre la città lagunare preferiva annegarli nottetempo in canale per mantenere ipocritamente la fama di liberalità che si era costruita.
In Italia gli strali dell'inquisizione si erano appuntati anche sulle opere d'arte: le autorità ecclesiastiche erano ben consapevoli dell'importanza divulgativa delle immagini, e non vollero farsi scappare l'occasione di tenere sotto controllo pittori e scultori: il Giudizio universale di Michelangelo, per fare un esempio famoso, aveva corso seriamente il rischio di essere distrutto per "l'oscenità" dei suoi nudi, a cui si era poi rimediato facendo coprire con pannicelli le pudende da un pittore - Daniele da Volterra - che ricevette per questo l'appellativo poco lusinghiero di "braghettone". Fu in questo clima assai poco favorevole alla libera creatività che Paolo veronese fu chiamato a rispondere delle invenzioni dell'Ultima cena in un processo i cui atti sono giunti fino a noi. Partendo forse dalla descrizione del vangelo di Marco in cui Cristo indica agli Apostoli il luogo del banchetto pasquale: "una grande sala con i tappeti, già pronta", e considerando che le dimensioni del telero (ben 13 metri di larghezza per 5,5 di altezza), il pittore aveva immaginato un ambiente spazioso e pieno di gente dove il padrone di casa accoglieva gli ospiti sotto lo sguardo dello scalco, ossia il soprintendente alle cucine aristocratiche che aveva il compito di dirigere i cuochi e il personale domestico. 

I commensali, serviti da numerosi paggi di colore, sono quindici e non tredici come vuole la tradizione, a cui si aggiunge altra gente che si affolla nel loggiato, compresi alcuni bambini, due alabardieri che mangiano e bevono e un nanetto con un pappagallo;  l'estro dell'artista si era voluto privare di altri particolari gustosi, come un servo a cui esce il sangue dal naso e un uomo che si pulisce i denti con la forchetta; naturalmente non potevano mancare gli animali, che nel rinascimento erano ammessi senza problemi nelle sale da pranzo. Il tutto in un'atmosfera festosa completamente ignara della presenza di Gesù (uno degli astanti gli volta addirittura le spalle) e soprattutto del miracolo che avrebbe dovuto svolgersi durante il sacro convitto: il miastero della transustanziazione per cui il pane e il vino si trasformavano in carne e sangue. La laicità del dipinto poteva causare un precedente pericoloso, anche perché la dottrina protestante rifiutava il dogma su cui è incentrata la messa cattolica. Fu proprio sui dettagli dell'opera che il Veronese fu chiamato a giustificarsi.


"Inquisitore: in questa che avete fatto, che cosa significa l'uomo cui esce il sangue dal naso?


Paolo: A un servo, colpito da una botta, è capitato questo accidente.


Inquisitore: Che significa quelli armati alla Todesca vestiti con una lambarda per uno in mano?


Paolo: El fa bisogno che dica qui vinti parole! Noialtri pittori si pigliamo le licenze che si pigliano i poeti e i matti. Ho fatto due Alabardieri uno che mangia, e l'altro che beve vicino a una scala, i quali son messi là parendomi conveniente che l' patron della Casa che era grande e ricco, dovesse aver tali servitori (...) ma se nel quadro avanza spazio io l'adorno di figure, secondo l'invenzione.


Inquisitore: Quello vestito da buffone con il pappagallo in pugno a che effetto l'avete dipinto?


Paolo: Per ornamento, come si fa".


Paragonando il suo lavoro al comportamento dei folli che assecondano le passioni e  l'istinto senza pensarci sopra - e sminuendolo solo in apparenza - l'artista rivendicò testardamente e coraggiosamente davanti all'ottusa commissione il suo diritto alla libertà creativa. Sapeva di essere in buona fede, e anche quando il giudice, affermando che il soggetto era scurrile, gli chiese maliziosamente se "qualcuno" gli avesse dato dei suggerimenti, ribadì che essendo il quadro grande si era sentito obbligato a realizzarlo seguendo unicamente il suo estro, come meglio sapeva fare. Con l'aria bigotta che tirava in laguna fu però impossibile convincere i giudici: Veronese fu condannato ad emendare a sue spese l'opera nel giro di tre mesi, a scanso di una pena più severa. Per fortuna la cosa (forse per il buon ufficio dei frati) si ridusse alla fine nel compromesso di cambiare il titolo del quadro che diventò così "La cena in casa di Levi" con riferimento all'episodio evangelico in cui il pubblicano, pentito, invita Gesù a un banchetto in casa sua, tra peccatori e ricchi esattori delle tasse; il processo fu annullato e tutto finì nel modo migliore, lasciando godere a noi posteri uno dei vertici più alti della pittura veneta della seconda metà del Cinquecento. 
Questo meraviglioso telero è una festa di tinte smaglianti. Come Tiziano l’artista ricorre all’uso intuitivo di contrasti di colore complementare e di ombre colorate che sarà poi scientificamente studiata dagli Impressionisti, mentre si pone il problema della ricerca di diverse tonalità di bianco anticipando di due secoli l’arte del Tiepolo. La sua ricchissima tavolozza comprende blu oltremare, azzurri smaltati, indaco, lacca rossa, vermiglione, molte tonalità di giallo, e un particolare tipo di verde brillante, che dal suo soprannome sarà detto “veronese".

Fonti: Neri Pozza, Le storie veneziane, Mondadori
http://www.foresteriavenezia.it/documenti/ee10b27c9a0e2f3733d041b22c697ca7.pdf
http://www.ereticopedia.org/

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