Ukiyo, mondo
della sofferenza: questo termine di origine buddhista indicava nel Giappone
medievale lo stato di tutti coloro che - dolorosamente attaccati all’esistenza
transitoria – ne subivano le conseguenze in un altalenare continuo di speranze
e disillusioni. Ma se mentre in Occidente la meditazione sulla caducità delle
cose ha dato luogo a funebri fantasie, in Oriente lo stesso tema è stato
capace di innescare commoventi e
poetiche riflessioni sulla bellezza breve della vita, splendente e fragile come
un fiore. Nel XVII secolo il monaco e poeta Asai Ryoi, interpretava la parola
Ukiyo come “mondo fluttuante”, una sorta di filosofia del giorno per giorno: “Vivere
momento per momento, volgersi interamente alla luna, alla neve, ai fiori di
ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere sakè,
consolarsi dimenticando la realtà, non preoccuparsi della miseria che ci sta di
fronte, non farsi scoraggiare, essere come una zucca vuota che galleggia sulla
corrente dell’acqua”. Dal punto di vista artistico, le massime espressioni di
questo modo di intendere la vita furono le illustrazioni dei libri popolari a
stampa, genere che fiorì soprattutto tra
il XVII e il XX secolo nelle città di Osaka, Kyoto, Edo (l’odierna Tokyo) allora
sede dello Shogun, la carica più alta delle forze armate; lì una società colta
ed elegante viveva le sue notti nei quartieri del piacere, ritrovo non solo di
gaudenti, ma anche di aristocratici in incognito, mercanti, letterati, attori
ed editori, e dove le più alte cortigiane tenevano raffinatissimi salotti.
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Uno dei più
grandi maestri di questo genere creativo, l’ Ukiyo-e, fu un uomo dai molti nomi
nato in un tranquillo sobborgo di Edo, e noto al mondo come Hokusai. Non si sa esattamente di chi fosse figlio il
piccolo Tokitaro, che troviamo per la prima volta gironzolare nella bottega del
padre adottivo, un abile artigiano che fabbricava specchi, già appassionato di
disegno all’età di sei anni. Nato nel 1760, sarebbe vissuto per 89 anni
dedicando tutto il suo tempo al disegno e alla pittura, in una famelica sete di
perfezione che l’avrebbe portato a
comporre migliaia di opere e di soggetti: dipinti, stampe, fogli augurali,
romanzi illustrati, manuali didattici, sperimentando ogni tecnica, curioso di
ogni cosa e raffigurando tutto con inesauribile estro e fantasia.
Durante la
sua vita vagabonda (cambiò casa ben novantatré volte) l’artista assunse fino a
un centinaio di nomi, ereditando anche – come era d’uso in Giappone – quelli
dei capi delle botteghe di pittura dove aveva lavorato. Diventò Katsushika Hokusai
- ossia “studio della stella Polare” - nel 1798 a quasi quarant’anni, quando si realizzò come professionista
indipendente. Non c’è soggetto o stile che questo artista non abbia
attraversato, esplorando le molte scuole giapponesi e rivisitando anche la
prospettiva occidentale adattata alle
tradizioni e al gusto della cultura orientale. Non solo: una volta trovata una
nuova vena la elaborava in tutte le maniere possibili, poi – cambiato nome – iniziava
con la stessa meticolosità e passione un percorso completamente nuovo, al punto
che la sua pittura può sembrare opera di molte mani diverse. Questa creatività instancabile
e naturale lo portò in vecchiaia a un’abilità tale da essere chiamato ad
esibirsi in prove pubbliche di bravura in cui era capace di passare da formati
giganteschi a miniature infinitesimali, come quando correndo con una scopa
inzuppata di inchiostro su un rotolo di carta lungo duecento metri, disegnò la
figura di Daruma, il fondatore delle Zen,
o quando con un pennello minuscolo dipinse su un chicco di grano due passeri in
volo.
A
cinquantacinque anni Hokusai pubblicò il primo volume dei Manga, un termine da
lui inventato e che si riferisce agli schizzi bizzarri contenuti in una serie monumentale di
album che avrebbe continuato a
realizzare per il resto della sua esistenza: si trattava di illustrazioni a
stampa in tre colori che dovevano fornire ad altri artisti una guida al
disegno. Enorme il raggio degli argomenti, sempre sulla scia della tradizione
giapponese ma trattati con un realismo ironico e caricaturale e un’attenta
ricerca psicologica dei moti d’animo umani. Gli utensili e le armi erano
rappresentati con la stessa imparziale attenzione dei corpi, perché in Giappone
non esisteva la scala di valori tipicamente occidentale che divideva le arti in
“maggiori” e “minori” ma tutto era sullo stesso piano d’importanza, facendo
parte dell’infinita varietà del creato. Il sessantesimo anno di vita di Hokusai coincise con un ulteriore cambiamento
di genere che si rivolse a sviluppare il tema del paesaggio. Le stampe
policrome furono divise in serie: il “Viaggio tra le cascate giapponesi” le
“Vedute insolite di famosi ponti giapponesi”, la celeberrima “Trentasei vedute
del monte Fuji” che contiene “L’onda presso la costa di Kanagawa”, meglio nota
come “La grande onda”; se nella pittura occidentale il soggetto si impone quasi
sempre in primo piano, in quest’ultimo gruppo di stampe la montagna sacra del
Giappone compare spesso in fondo o a lato della scena come un elemento
immobile, divino e fuori dal tempo, seminascosto tra le cose del mondo in
movimento, le nebbie, gli alberi, le colline, la schiuma del mare e il
brulichio degli uomini.
Il carattere
incontentabile ed eccentrico di Hokusai e la sua ricerca di libertà gli
impedirono di inserirsi negli ambienti
della moda e del potere. Si definiva “il contadino di Katsushika”, il distretto
di cui faceva parte il suo sobborgo natale, e visse tutta la vita in orgogliosa
povertà rifiutando in alcune occasioni di vendere le sue opere se il cliente
non gli garbava. Ebbe due mogli e sei figli, e nonostante in vecchiaia fosse
ormai consacrato come artista famoso, dovette affrontare una serie ulteriore di
problemi economici causati anche da dissidi familiari che gli prosciugarono le
finanze.
Nonostante ciò il livello qualitativo dei suoi lavori - da cui non si
fece mai distrarre – rimase sempre straordinariamente alto, e anche se gli
venivano pagate cifre miserabili non si scoraggiò e continuò a lavorare come un
forsennato. Nella postfazione alle
“Trentasei vedute del Fuji” scrivendo di sé si firmò “Manji il vecchio pazzo
per la pittura”: “Dall'età di sei anni ho la mania di copiare la forma delle
cose, e sono cinquant'anni che pubblico disegni; tra quel che ho raffigurato
non c'è nulla degno di considerazione. A settantatre anni ho a malapena intuito
l'essenza della struttura di animali ed uccelli, insetti e pesci, della vita di
erbe e piante e perciò a ottantasei progredirò oltre; a novanta ne avrò
approfondito ancor più il senso recondito e a cento anni avrò forse veramente
raggiunto la dimensione del divino e del meraviglioso.
Quando ne avrò
centodieci, anche solo un punto o una linea saranno dotati di vita propria.”
Non sarebbe arrivato al secolo: morì dopo una breve malattia senza aver mai
abbandonato passione ed entusiasmo.
Fonti:
Henri
Focillon, Hokusai, Edizioni Alfa
Hokusai, il
vecchio pazzo per la pittura, catalogo Electa