lunedì 9 novembre 2015

Il mondo fluttuante di Hokusai, il vecchio pazzo per la pittura

Ukiyo, mondo della sofferenza: questo termine di origine buddhista indicava nel Giappone medievale lo stato di tutti coloro che - dolorosamente attaccati all’esistenza transitoria – ne subivano le conseguenze in un altalenare continuo di speranze e disillusioni. Ma se mentre in Occidente la meditazione sulla caducità delle cose ha dato luogo a funebri fantasie, in Oriente lo stesso tema è stato capace  di innescare commoventi e poetiche riflessioni sulla bellezza breve della vita, splendente e fragile come un fiore. Nel XVII secolo il monaco e poeta Asai Ryoi, interpretava la parola Ukiyo come “mondo fluttuante”, una sorta di filosofia del giorno per giorno: “Vivere momento per momento, volgersi interamente alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere sakè, consolarsi dimenticando la realtà, non preoccuparsi della miseria che ci sta di fronte, non farsi scoraggiare, essere come una zucca vuota che galleggia sulla corrente dell’acqua”. Dal punto di vista artistico, le massime espressioni di questo modo di intendere la vita furono le illustrazioni dei libri popolari a stampa,  genere che fiorì soprattutto tra il XVII e il XX secolo nelle città di Osaka, Kyoto, Edo (l’odierna Tokyo) allora sede dello Shogun, la carica più alta delle forze armate; lì una società colta ed elegante viveva le sue notti nei quartieri del piacere, ritrovo non solo di gaudenti, ma anche di aristocratici in incognito, mercanti, letterati, attori ed editori, e dove le più alte cortigiane tenevano raffinatissimi salotti. 
Da questo ambiente oltre che dalla vita quotidiana, dalla bellezza femminile, dal teatro, dai racconti e romanzi eroici, dalla mitologia, dalla natura e dai paesaggi, gli artisti giapponesi - per i quali non era disdicevole la riproduzione commerciale delle loro opere - trassero ispirazione; il loro stile è caratterizzato da composizioni asimmetriche e prive di prospettiva centrale e da un disegno preciso ed elegante che racchiude campiture di colore piatto e uniforme, escludendo completamente il chiaroscuro.
Uno dei più grandi maestri di questo genere creativo, l’ Ukiyo-e, fu un uomo dai molti nomi nato in un tranquillo sobborgo di Edo, e noto al mondo come Hokusai.  Non si sa esattamente di chi fosse figlio il piccolo Tokitaro, che troviamo per la prima volta gironzolare nella bottega del padre adottivo, un abile artigiano che fabbricava specchi, già appassionato di disegno all’età di sei anni. Nato nel 1760, sarebbe vissuto per 89 anni dedicando tutto il suo tempo al disegno e alla pittura, in una famelica sete di perfezione  che l’avrebbe portato a comporre migliaia di opere e di soggetti: dipinti, stampe, fogli augurali, romanzi illustrati, manuali didattici, sperimentando ogni tecnica, curioso di ogni cosa e raffigurando tutto con inesauribile estro e fantasia. 
Durante la sua vita vagabonda (cambiò casa ben novantatré volte) l’artista assunse fino a un centinaio di nomi, ereditando anche – come era d’uso in Giappone – quelli dei capi delle botteghe di pittura dove aveva lavorato. Diventò Katsushika Hokusai - ossia “studio della stella Polare” - nel 1798 a quasi quarant’anni, quando si realizzò come professionista indipendente. Non c’è soggetto o stile che questo artista non abbia attraversato, esplorando le molte scuole giapponesi e rivisitando anche la prospettiva occidentale  adattata alle tradizioni e al gusto della cultura orientale. Non solo: una volta trovata una nuova vena la elaborava in tutte le maniere possibili, poi – cambiato nome – iniziava con la stessa meticolosità e passione un percorso completamente nuovo, al punto che la sua pittura può sembrare opera di molte mani diverse. Questa creatività instancabile e naturale lo portò in vecchiaia a un’abilità tale da essere chiamato ad esibirsi in prove pubbliche di bravura in cui era capace di passare da formati giganteschi a miniature infinitesimali, come quando correndo con una scopa inzuppata di inchiostro su un rotolo di carta lungo duecento metri, disegnò la figura di  Daruma, il fondatore delle Zen, o quando con un pennello minuscolo dipinse su un chicco di grano due passeri in volo.

A cinquantacinque anni Hokusai pubblicò il primo volume dei Manga, un termine da lui inventato e che si riferisce agli schizzi  bizzarri contenuti in una serie monumentale di album che avrebbe  continuato a realizzare per il resto della sua esistenza: si trattava di illustrazioni a stampa in tre colori che dovevano fornire ad altri artisti una guida al disegno. Enorme il raggio degli argomenti, sempre sulla scia della tradizione giapponese ma trattati con un realismo ironico e caricaturale e un’attenta ricerca psicologica dei moti d’animo umani. Gli utensili e le armi erano rappresentati con la stessa imparziale attenzione dei corpi, perché in Giappone non esisteva la scala di valori tipicamente occidentale che divideva le arti in “maggiori” e “minori” ma tutto era sullo stesso piano d’importanza, facendo parte dell’infinita varietà del creato. Il sessantesimo anno di vita di  Hokusai coincise con un ulteriore cambiamento di genere che si rivolse a sviluppare il tema del paesaggio. Le stampe policrome furono divise in serie: il “Viaggio tra le cascate giapponesi” le “Vedute insolite di famosi ponti giapponesi”, la celeberrima “Trentasei vedute del monte Fuji” che contiene “L’onda presso la costa di Kanagawa”, meglio nota come “La grande onda”; se nella pittura occidentale il soggetto si impone quasi sempre in primo piano, in quest’ultimo gruppo di stampe la montagna sacra del Giappone compare spesso in fondo o a lato della scena come un elemento immobile, divino e fuori dal tempo, seminascosto tra le cose del mondo in movimento, le nebbie, gli alberi, le colline, la schiuma del mare e il brulichio degli uomini.
Il carattere incontentabile ed eccentrico di Hokusai e la sua ricerca di libertà gli impedirono di  inserirsi negli ambienti della moda e del potere. Si definiva “il contadino di Katsushika”, il distretto di cui faceva parte il suo sobborgo natale, e visse tutta la vita in orgogliosa povertà rifiutando in alcune occasioni di vendere le sue opere se il cliente non gli garbava. Ebbe due mogli e sei figli, e nonostante in vecchiaia fosse ormai consacrato come artista famoso, dovette affrontare una serie ulteriore di problemi economici causati anche da dissidi familiari che gli prosciugarono le finanze. 

Nonostante ciò il livello qualitativo dei suoi lavori - da cui non si fece mai distrarre – rimase sempre straordinariamente alto, e anche se gli venivano pagate cifre miserabili non si scoraggiò e continuò a lavorare come un forsennato.  Nella postfazione alle “Trentasei vedute del Fuji” scrivendo di sé si firmò “Manji il vecchio pazzo per la pittura”: “Dall'età di sei anni ho la mania di copiare la forma delle cose, e sono cinquant'anni che pubblico disegni; tra quel che ho raffigurato non c'è nulla degno di considerazione. A settantatre anni ho a malapena intuito l'essenza della struttura di animali ed uccelli, insetti e pesci, della vita di erbe e piante e perciò a ottantasei progredirò oltre; a novanta ne avrò approfondito ancor più il senso recondito e a cento anni avrò forse veramente raggiunto la dimensione del divino e del meraviglioso. 
Quando ne avrò centodieci, anche solo un punto o una linea saranno dotati di vita propria.” Non sarebbe arrivato al secolo: morì dopo una breve malattia senza aver mai abbandonato passione ed entusiasmo. 
Fonti:
Henri Focillon, Hokusai, Edizioni Alfa
Hokusai, il vecchio pazzo per la pittura, catalogo Electa

domenica 8 novembre 2015

Antonio Canova, il successo nell’arte, la sfortuna in amore


Quando nel 1757 vi nacque Antonio Canova, Possagno era un piccolo agglomerato di case situato nella zona pedemontana del Grappa, un’area costellata di cave abitata da artigiani che esercitavano il mestiere di scalpellini e tagliapietre. L’infanzia di “Tonin” – figlio appunto di un povero cavapietre - fu presto funestata dalla morte prematura del padre e dall’allontanamento della madre, che decise di risposarsi e di trasferirsi in un altro paese, lasciando l’educazione del piccolo al nonno Pasino, uomo burbero e stravagante ma anche scalpellino di una certa notorietà. Alla tenera età di sette anni Tonin aveva già la scultura nel sangue e lo dimostrò realizzando un leone in burro per una cena nella villa dei nobili Falier ad Asolo: questa precoce esibizione di bravura gli procurò l’ammirazione del potente padrone di casa che lo fece studiare prima nella bottega di Bernardo Torretti, poi visto che Antonio imparava molto in fretta, presso l’Accademia del Nudo di Venezia. Non aveva ancora vent’anni quando arrivarono le prime commissioni tra cui un gruppo con Dedalo e Icaro, che sarebbe stata esposto alla fiera della Sensa che si teneva ogni anno in città in occasione della festa dell’Ascensione di Cristo.

Canova era un giovane timido e schivo dedito quasi soprattutto al lavoro e poco alle amicizie femminili, che nella sua vita saranno scarsissime e poco fortunate: a Venezia aveva conosciuto la sua prima ragazza, Laura, di cui sappiamo solo il nome. Sotto al carattere chiuso dell’artista premeva soprattutto una forte ambizione che lo spinse in seguito ad allargare i suoi orizzonti al di fuori dei confini asfittici della Repubblica di Venezia, a quei tempi in piena decadenza, dove la produzione artistica stentava ad allargare gli orizzonti ancora immersi nella tradizione del colorismo tonale. Altrove la scoperta di Pompei aveva acceso l’interesse per il mondo antico e aperto un nuovo dibattito sull’interpretazione della Bellezza ideale che si riteneva dovesse guardare alla classicità greca come unico faro da seguire e dimenticare al tempo stesso le linee spezzate, gli stucchi, le ridondanze del Rococò.
In quello scorcio di secolo l’arte si imparava a Roma, e fu per la città eterna che Tonino decise di partire nel 1779. Una volta arrivato, fu introdotto presso un circolo di aristocratici veneti tra cui conobbe artisti e personalità intellettuali,  e si buttò nelle visite ai monumenti antichi e nello studio della letteratura classica senza tralasciare – lui che nell’infanzia parlava più dialetto che italiano – l’apprendimento del francese e dell’inglese. L’ambiente romano gli piacque a tal punto che, quando nel 1781 il Senato della Repubblica gli assegnò una pensione di 300 ducati annui, decise di abbandonare Laura e la sua regione natale per sistemarsi definitivamente in loco ed accettare nuove e importanti commissioni. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore: a Roma Antonio si era innamorato di Domenica Volpato, figlia di un incisore e ceramista suo conterraneo, che vedeva di buon occhio il fidanzamento della figlia con un giovane così promettente. L’atteggiamento della ragazza era timido e restio come allora si richiedeva a una giovane dabbene, ma  proprio durante i preparativi delle nozze all’ingenuo Tonino cominciarono ad arrivare voci malevole che suggerivano un’altra verità: la promessa sposa aveva un amante. Continuando a dichiarasi convinto della sua onestà, ma nonostante tutto roso dal tarlo del sospetto, una sera lo scultore si recò sotto le finestre di lei per scoprirla - amara sorpresa - tra le braccia di un rivale. La storia delle corna fece il giro di tutta Roma, il fidanzamento fu rotto e Canova decise da quel momento di dedicare la sua vita esclusivamente all’arte e al lavoro, circondandosi solo degli amici e appoggiandosi per l’andamento della casa  a un’anziana governante e al marito.

Un viaggio a Napoli gli aveva permesso di conoscere meglio le opere emerse dagli scavi archeologici di Pompei. L’avvicinamento all’arte antica lo ispirò a realizzare una serie di importanti sculture di soggetto mitologico: Amore e Psiche, Venere e Adone, Ebe, Ercole e Lica e molte altre che gli permisero di ottenere il successo internazionale. Contemporaneamente lavorò al monumento funebre di Clemente XIII, un impegno gigantesco che mise alla prova le sue capacità. La sua tecnica raffinata era basata sullo studio della statuaria greca: partendo da un bozzetto in creta, ne realizzava poi un altro a grandezza naturale di cui faceva un calco in gesso in cui erano inseriti piccoli chiodi (répere). Riportando la posizione dei chiodi sul blocco di marmo attraverso un pantografo, faceva abbozzare la statua dai suoi assistenti per riservarsi  la finitura con trapano e vari tipi di scalpello, trattando il marmo con sabbie abrasive sempre più impalpabili, fino a lucidare perfettamente la materia su cui a volte stendeva uno strato di cera leggermente colorata per rendere l’idea dell’incarnato.
Gli ultimi anni del secolo non furono facili per Canova: aveva avuto lutti importanti, tra cui la scomparsa del nonno Pasino, mentre dalla Francia giungevano le tragiche notizie della Rivoluzione in corso. Cresciuto a contatto con l’ambiente aristocratico che lo aveva accolto e aiutato, lo scultore non riuscì ad afferrare l’importanza storica di quelle che chiamava “lacrimevoli circostanze che divorano il mondo intero” e per alleviare la depressione si buttò in modo quasi disperato nel lavoro.
La discesa di Napoleone in Italia e il trattato di Campoformio, che nel 1797 sancì la fine della Repubblica di Venezia,  furono un colpo ulteriore per lui, nonostante che il Bonaparte, suo grande estimatore, lo mettesse addirittura sotto la protezione della sua Armata. Volente o nolente Antonio dovette accontentare il vincitore francese e finì per eseguire uno dopo l’altro i ritratti idealizzati della famiglia imperiale rappresentati come divinità greche. Tra queste sculture il suo capolavoro è Paolina Bonaparte in veste di Venere vincitrice, dove la bella sorella di Napoleone è adagiata seminuda su un triclinio con una mela in mano, allusiva alla vittoria di Afrodite su Era ed Atena nel mito del giudizio di Paride. La statua, il cui piedistallo in legno può essere ruotato, sottolinea l’innovativa concezione canoviana della scultura che doveva essere fruita da ogni punto di vista senza averne mai uno privilegiato. Con la caduta di Napoleone Canova si mise di nuovo al servizio della committenza papale, ottenendo anche il titolo di marchese.
Il figlio dello scalpellino era diventato ricchissimo e si era coperto di gloria; non aveva però dimenticato Possagno per cui fece progettare a sue spese,  prendendo a modello il Pantheon, la chiesa parrocchiale consacrata alla Santissima Trinità  ora nota come Tempio canoviano, di cui tuttavia non avrebbe mai visto la conclusione. 
La sua salute stava declinando: andava ormai per i settanta e da anni soffriva di dolori al torace, probabilmente dovuti all’uso assiduo del trapano appoggiato con forza contro le costole. Avrebbe voluto scolpire ancora, pensava con ansia ai lavori sospesi a Roma, ma la morte lo colse a Venezia nel 1822. Come usava per le salme dei regnanti il cadavere dello scultore fu smembrato: mentre le spoglie sono sepolte a Possagno, il cuore si trova nella chiesa veneziana dei Frari. La mano destra,  un tempo custodita presso l’Accademia di Belle Arti della città lagunare, è stata da poco ricongiunta al corpo.
Fonti:
Canova, I classici dell’arte, Rizzoli-Skira, RCS quotidiani, 2005
Valeria Arnaldi, SPQR. Sono pettegoli questi romani, Lit edizioni, 2014

venerdì 6 novembre 2015

Per la Francigena alla Porta del Cielo: il pellegrinaggio in Italia nel medioevo

Molto prima del Mille, in un’epoca che fino a non moltissimo tempo fa la storiografia considerava “buia” ma che in realtà era ricca di promesse di crescita e sviluppo, era comune vedere uomini e donne devoti che si incamminavano per strade pericolose allo scopo di raggiungere luoghi considerati sacri. Roma, Santiago di Compostela, Gerusalemme, furono le principali mete di pellegrinaggio dell’occidente cristiano nel medioevo: in particolare visitare la prima significava inginocchiarsi in adorazione davanti alla tomba di Pietro, il principe degli apostoli, considerata – come le altre due - una delle porte per accedere al Paradiso. Nell’anno del Signore 990 Sigerico - nominato da poco arcivescovo di Canterbury – compì un viaggio lungo 1600 chilometri diretto a Roma per ricevere dal Papa il pallio, una veste di lana simbolo dell’investitura. Si fermò un paio di giorni, visitò la bellezza di 23 chiese, poi se ne ripartì verso casa. Un pellegrino come gli altri si direbbe: ma ciò che ha reso importante per noi moderni il viaggio dell’arcivescovo è la stesura di un diario che costituisce la relazione più antica in nostro possesso sulla via Francigena, e che annota diligentemente le 79 tappe percorse al ritorno restituendoci così l’itinerario di coloro che dall’Inghilterra voleva recarsi nella città santa.
La via Francigena, o Francesca, o Romea (da non confondersi con l’omonima statale adriatica) non era in realtà composta da un solo tracciato, ma da una serie di strade e collegamenti che potevano variare a seconda della sicurezza del percorso (che dipendeva sia dalla stagionalità che dalla situazione politica dei territori attraversati) o a seconda dei luoghi che si volevano visitare, specie quelli santificati dalla presenza di reliquie o dove si erano verificati miracoli e meravigliose apparizioni. L’ antica viabilità consolare romana che permetteva di viaggiare facilmente in tutta l’Europa era nel medioevo in stato di grave abbandono; pertanto si erano formate nel tempo strade alternative, che sfruttavano in parte antiche vie barbariche, in parte e quando c’era, il robusto lastricato latino. 
In Italia quest’ultimo era ancora in buono stato sul passo del Gran San Bernardo, mentre da Pavia alla Toscana funzionava almeno dall’VIII secolo una strada longobarda attrezzata detta “via di monte Bardone”, un facile varco che da Parma scavalcava gli Appennini per scendere in Lunigiana. 
Il tracciato proseguiva poi verso i ducati longobardi del sud discostandosi dalla vetusta Aurelia, troppo vicina al mare ed esposta ad incursioni piratesche, e per lunghi tratti abbandonata a causa dell’impaludamento della Maremma. Dopo la venuta di Carlo Magno il percorso prese il nome definitivo di “strata Francigena” probabilmente per indicare il tragitto compiuto da coloro che provenivano dalla Francia.
L’itinerario di Sigerico, una volta attraversato il Po, toccava l’importante snodo di Piacenza e seguiva lungo vari chilometri l’antica via Emilia per giungere a Fiorenzuola d’Arda, Fidenza e Fornovo sul Taro, per parlare solo delle tappe più importanti. Berceto era una punto fondamentale del percorso Longobardo per collegare la pianura padana con la Toscana; da lì si arrivava al passo della Cisa da cui si scendeva a Pistoia, Pontremoli, Massa, Pietrasanta e Lucca. Quivi si poteva adorare il Volto Santo – tuttora esistente - un crocifisso ligneo che secondo la leggenda era stato scolpito miracolosamente dagli angeli senza alcun intervento umano. 
Proseguendo verso sud si trova la cittadina di Altopascio che non era stata ancora fondata ai tempi di Sigerico, ma che nei secoli successivi diventò sede di un importante ospedale, nome con cui nel medioevo non si indicavano strutture sanitarie, ma luoghi dove si riceveva ospitalità; dall’alta torre dell'Ospizio si diffondevano i rintocchi della “Smarrita” la campana che indicava la strada ai viandanti che si fossero persi nelle paludi circostanti. San Gimignano non aveva ancora l’aspetto turrito che l’ha caratterizzata dal Duecento, né esisteva il castello di Monteriggioni, costruito nel XIII secolo. La località meglio gestita dopo Altopascio era invece Siena dove lo “Spedale” di santa Maria della Scala, svolgeva più funzioni, dall’assistenza ai malati, all’accoglienza dei pellegrini, al ricovero dei poveri. Lasciata la città che – grazie proprio alla via Francigena - sarebbe diventata uno dei maggiori centri medievali europei, si raggiungeva San Quirico d’Orcia e da lì, passate Bolsena, Montefiascone e Sutri, si arrivava a Viterbo e finalmente a Roma. Quella del pellegrino è una tipica figura della società medievale: ricco o povero, giovane o vecchio,  sano o ammalato, a cavallo o molto più spesso a piedi, chi si muoveva da casa per intraprendere viaggi così lunghi e difficili, lo faceva sostanzialmente per pura devozione, per sciogliere un voto, per ottenere indulgenze o per scontare un peccato commesso, pena prevista non solo dai tribunali ecclesiastici ma perfino da quelli civili. Per far penitenza era importante viaggiare senza mezzi, provando la fatica del corpo, la fame e la sete, la paura dei malfattori, in modo da trasformare  il viaggio del corpo in un’ascesi, ossia in un viaggio dell’anima.
Bisognava dunque dimostrare umiltà sia nell’atteggiamento che nel vestito: un mantello con cappuccio o un cappello a falde larghe, un robusto bastone con la punta ferrata (il bordone), una bisaccia e una borraccia che venivano benedetti assieme alla persona prima di partire. La destinazione del viandante era riconoscibile dagli attributi che applicava sulla veste e sul cappello: una palma per Gerusalemme, una conchiglia per Santiago di Compostela, croci o chiavi incrociate per Roma. Dopo Sigerico - tra l’XI e il XII secolo - le strade furono integrate con stazioni di cambio, piccoli centri abitati, ospedali e castelli. 
Ciò non toglie che i pericoli fossero numerosi: bisognava guardarsi da abissi e ponti pericolanti, animali selvatici, bande di predoni che aggredivano, derubavano e bastonavano i malcapitati, ma anche da locandieri, traghettatori e gabellieri disonesti ed esosi. Si metteva in conto di rischiare la vita, al punto che era pratica comune redigere un testamento prima della partenza. Le scomodità erano infinite: i letti delle locande erano suddivisi con altri ospiti, possiamo immaginare in che condizioni igieniche; il cibo si limitava al pane e al vino (che nel medioevo costava poco), più salubre dell’acqua spesso infetta, a volte qualche verdura, mentre la carne era roba da ricchi.
Anche nel medioevo il “turismo” religioso comportava l’incetta di souvenir, che avevano lo scopo di dimostrare il raggiungimento della meta e di riportare a casa qualcosa che ne conservasse l’aura sacrale: ampolle che contenevano olio, acqua o terra presi dal luogo santo, cera delle candele che bruciavano nel santuario, e quando possibile reliquie il cui commercio era un business che sfruttava il fanatismo dei creduloni. 
Ne parla ironicamente anche il Boccaccio nel Decamerone, che descrive tra i santi oggetti in possesso di frate Cipolla, una penna persa dall’arcangelo Gabriele in casa di Maria e una cassetta coi carboni che avevano arrostito San Lorenzo.  
Tra la fine del XIV e il XV secolo la spinta al pellegrinaggio cominciò ad esaurirsi. Chi poteva cominciò a ricorrere a professionisti che, dietro una congrua ricompensa, percorrevano la strada al suo posto addossandosi le fatiche e i rischi del viaggio. Il Protestantesimo fu contrario a questa pratica perché la riteneva responsabile della compravendita delle indulgenze. A partire dal 1500 la motivazione religiosa del viaggio si trasformò in interesse culturale: iniziava l’epoca del Grand Tour e la meta finale non furono più le reliquie degli apostoli, ma le rovine maestose di Roma antica.

Fonti: 
Touring Club Italiano, La via Francigena. Le grandi vie del pellegrinaggio

mercoledì 4 novembre 2015

L'imperatore ha il naso a pera: parola di Arcimboldo

Spettacolari teste composte con prodotti della terra come fiori, frutti, cortecce, funghi, pannocchie; oppure realizzate incastrando tra loro molte specie di mammiferi, volatili, pesci, o componendo puzzle di oggetti come libri, lucerne, armi da fuoco: questa la produzione di Giuseppe Arcimboldo (o Arcimboldi), singolare artista lombardo di grande reputazione nel XVI secolo. Figlio di Biagio, pittore impiegato presso la Fabbrica del Duomo di Milano, si formò in un ambiente dove aveva soggiornato a lungo Leonardo da Vinci, lasciandovi in eredità l’amore per l’osservazione attenta della natura nelle sue infinite variazioni, non disgiunto dal gusto per la caricatura grottesca. Non sappiamo molto della giovanile attività di Giuseppe, se non le note lasciateci dal gesuita Paolo Morigia che lo definisce “pittore raro” e autore di “diverse bizzarrie”; il suo lavoro dovette però procurargli una certa notorietà anche fuori dalla penisola, tanto che nel 1562 partì alla volta dell’Austria su invito di Massimiliano II d’Asburgo dove fu accolto con molta benevolenza e adeguato stipendio. L’estro di Arcimboldo fu messo alla prova – come capitava spesso agli artisti del periodo - nella realizzazione di cortei, feste, giochi e mascherate che necessitavano di costumi fantastici, coreografie e scenografie adeguati che dovevano rallegrare e stupire la corte. Oltre a ciò la sua immaginazione  trovava terreno fertile nella passione - che cominciò a dilagare sul finire
del Cinquecento in tutta Europa – di raccogliere e catalogare in uno o più ambienti (detti alla tedesca Wunderkammern, Camere delle meraviglie) oggetti rari e preziosi, opere d’arte, ritrovamenti archeologici, lavori di ebanisteria e di alto artigianato, ma anche stranezze esotiche come uova di struzzo, corni di rinoceronte e di narvalo (scambiato per il mitico unicorno), finti basilischi assemblati con parti di pesci e altre curiose cianfrusaglie.
A queste bizzarre collezioni dovette pensare Arcimboldo quando - al servizio di Massimiliano - produsse una serie di piccole tavole che ebbero un successo strepitoso e furono imitate al punto da creare al giorno d’oggi non poco imbarazzo per distinguere le copie dagli originali autografi. I soggetti rappresentano “Le quattro stagioni” – Primavera, Estate, Autunno, Inverno - e “I quattro elementi” - Aria, Fuoco, Terra, Acqua - che dovevano essere appesi nelle regali stanze
fronteggiandosi a coppie. Otto mezzi busti che, se visti da lontano appaiono come profili umani su fondo scuro, da vicino si dimostrano composizioni in cui, per fare l’esempio dell’estate,  il naso è formato da un cetriolo, l’orecchio da una melanzana, la guancia è una pesca e le labbra sono ciliegie. A studiarli meglio però i quadretti del pittore lombardo - oltre a sembrare un catalogo di prodotti di stagione - svelano ulteriori significati: essi non sono solo un “divertissement”, ma un’operazione intellettualistica collegata sia alle conoscenze scientifiche dell’epoca, che non si erano emancipate di molto dalla lezione della Grecia antica e di Aristotele, sia all’esaltazione degli Asburgo i cui simboli e le imprese araldiche emergono dagli intrichi animali e vegetali. Le imprese erano un  genere complesso di allegorie - poco immediato per l’osservatore moderno - che risaliva al Medioevo ed era diffusissimo nel Rinascimento che ne fece anche delle raccolte a stampa piuttosto astruse: in pratica non c’era signore o città che non avesse una o più immagini simboliche riportate nello stemma gentilizio, che si moltiplicavano con l’importanza della casata: nella versione arcimboldesca dell’Aria (di cui non esiste più l'originale) completamente composta di pennuti, tra
occhietti e becchi aguzzi sporgono il pavone e l’aquila, animali collegati agli Asburgo; la Terra ha le spoglie del leone di Boemia e del Toson d’Oro, insegna del prestigioso Ordine cavalleresco di Carlo V e che rimanda al mitico vello d'oro rubato dagli Argonauti: anche il Fuoco riprende la stessa idea aggiungendovi micce, armi e una colubrina con riferimento alle battaglie contro i Turchi che premevano per invadere l’impero. Tutti i busti inoltre presentano una sorta di corona regale, di fiori, di frutti, di grappoli d’uva, di rami, di teste d’uccello, di fiamme, di corna (è il caso della Terra) di pesci e sono in definitiva ritratti dell’imperatore associato come una divinità alle stagioni e al tempo, al macrocosmo e al microcosmo.
Le opere di Arcimboldo nascono dopo le grandi scoperte geografiche che fecero conoscere all’Europa un mondo sterminato e completamente sconosciuto. E’ proprio in questo periodo che, abbandonando la compilazione di bestiari fantastici tanto cara al Medioevo, si cominciarono a redigere raccolte di piante ed animali provenienti dai nuovi continenti cercando di creare un  gigantesco schedario zoologico e botanico dell’esistente, peraltro non privo di errori e fantasticherie. Ne abbiamo un esempio nella tavola che rappresenta l’Acqua dove sono state identificate più di sessanta  specie tra pesci, come la razza e lo squalo, mammiferi acquatici come la foca, anfibi e rettili come la tartaruga, invertebrati come il corallo e molluschi. Un’ulteriore curiosità arcimboldesca che doveva deliziare la corte erano le cosiddette “teste reversibili”, figure che al diritto rappresentavano cibarie, ma che se girate di 180 gradi mostravano essere ritratti caricaturali: ne è un esempio L’ortolano, da una parte un contenitore pieno di ortaggi, dall’altra un rubicondo fruttivendolo in forma vegetale con una specie di scodella metallica a mo’ di cappello.Alla morte di Massimiliano salì al trono il malinconico figlio Rodolfo, collezionista appassionato che continuò a stipendiare l’artista, se pur non per dipingere ma per andare alla ricerca di pezzi rari per la sua Camera delle meraviglie, che divenne ben presto la più  importante e grande d’Europa. Tuttavia Giuseppe, dopo anni di fedele servizio, sentiva la nostalgia della sua Milano e cominciò a insistere con l’imperatore per essere rispedito in
patria:  dopo un paio d’anni il sovrano l’accontentò, facendolo tornare a casa carico di gloria e di denaro e con la promessa di dipingere ancora per  lui. Fedele alla parola data, Arcimboldo gli spedì dall’Italia gli ultimi due quadri della sua vita, una Flora e il ritratto botanico di Rodolfo come Vertumno, una divinità di origine etrusca che presiedeva alla maturazione dei frutti e che aveva il dono di trasformarsi in qualsiasi forma volesse. Il dipinto, in cui il l’Asburgo è raffigurato frontale, rappresenta la summa delle altre stagioni perché vi compaiono in totale e simultanea pienezza fiori primaverili, frutti estivi e autunnali e verdure tipiche dell’inverno, alludendo all’aurea età dell’abbondanza inaugurata dall’imperatore, signore delle stagioni e degli elementi nella loro eterna mutazione.
Se dopo la morte i lavori dell’artista lombardo furono dimenticati, non lo fu l’idea di comporre ritratti usando vegetali, animali e ogni tipo di attrezzo e oggetto, fino a spingersi – in particolare durante il Settecento – alla creazione di grottesche caricature interamente composte da genitali maschili. Furono invece il movimento Surrealista e Dadaista che riscoprirono l’opera di Arcimboldo apprezzandone il gusto per il fantastico e la metamorfosi, e lo rilanciarono nel mondo moderno dove è diventato un costante punto di riferimento per artisti, grafic designers e campagne pubblicitarie.

Fonti: Francesco Porzio, L’universo illusorio di Arcimboldi, Fabbri editori
http://www.repubblica.it/speciali/arte/recensioni/2011/04/14/news/arcimboldo_a_milano-14933197/http://www.lundici.it/2015/06/limperatore-ha-il-naso-a-pera-parola-di-arcimboldo/