sabato 26 maggio 2018

Mutande, camicioni e reggiseni: la censura nell'arte


La storia della censura è antica e ovviamente non riguarda solo l'arte, ma più in generale il libero pensiero. Un esempio famoso è quello di Socrate, accusato da un tal Meleto di guastare lo spirito dei giovani e per questo condannato a morire bevendo una tazza di cicuta. Il filosofo in realtà applicava il principio scolpito sul tempio di Apollo a Delfi: “gnothi sautòn”, “conosci te stesso”, invitando a guardarsi dentro, a non accontentarsi, a perfezionarsi e non seguire gli stereotipi. Sempre in Grecia le autorità spartane proibirono alcune forme di musica, danza e poesia considerandole licenziose. Anche la Bibbia registra uno dei primi casi, quello del profeta Geremia, perseguitato e censurato da re Joachim. In generale però il pensiero antico fu abbastanza tollerante, specie per quello che riguarda l'esposizione del nudo: a Roma i Censori furono una carica pubblica cui spettava registrare i cittadini romani e le loro proprietà. Il più famoso fu Marco Porcio Catone, un vero rompiscatole di rigidissimi costumi che imponeva anche a tutta la famiglia; in particolare si oppose alla diffusione della cultura ellenistica che secondo lui rischiava di distruggere la sobrietà dei romani. Tuttavia i romani erano estremamente tolleranti in materia religiosa e – a parte l'intransigenza nei riguardi del culto dell'imperatore che causò non pochi guai ai cristiani – ammettevano qualsiasi credo e addirittura costruirono un tempio, il Pantheon, dedicato a tutte le divinità.
Duomo di Modena. Creazione e cacciata di Adamo ed Eva
Per quanto riguarda il cristianesimo dobbiamo ringraziare la Chiesa cattolica che ha permesso l'utilizzo e la diffusione delle immagini. L'ebraismo le vieta basandosi sulle leggi che Dio rivelò a Mosè sul Sinai: “Non fabbricarti nessun idolo e non farti nessuna immagine di quello che è in cielo, sulla terra, nelle acque o sotto terra” (Esodo, 20,3-5); in seguito - nell'impero bizantino dell'VIII secolo - si sviluppò un movimento politico e religioso, l'iconoclastia, che riteneva che la venerazione delle icone fosse una forma di idolatria. Per risolvere la spinosa questione fu indetto nel 787 il secondo concilio di Nicea che per nostra fortuna arrivò alla conclusione che: “le venerande e sante immagini debbono essere esposte nelle chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sui paramenti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie”. L'arte figurativa occidentale si era salvata per un pelo.
Madonna del latte. Verbania
Nel Medioevo la fine dell'arte pagana segnò anche quella dell'esposizione di nudi causando la distruzione di molte sculture antiche. Per parecchi secoli le immagini ebbero solo un carattere devozionale anche nell'uso privato: in particolare fu perseguitata la figura femminile e le dee greco-romane scomparvero per essere sostitute da Madonne e sante pudiche completamente infagottate in abiti che ne nascondevano le forme. Anche nelle rappresentazioni di Adamo ed Eva i genitali furono semplicemente piallati o al massimo coperti con foglie di lattuga o di fico, e l'identità sessuale fu sottolineata dalla presenza appena accennata del seno e dei capelli lunghi o della barba. Per ricordarci la bestialità umana Giotto reintrodusse il nudo tra i dannati del Giudizio universale nella cappella degli Scrovegni, seguito da altri artisti che fecero del soggetto un campionario di erotismo sadomaso. Dopo il Duecento comparve l'iconografia della Madonna del latte con il bambino attaccato a una mammella; il soggetto ebbe fortuna e fu affrontato anche nel Rinascimento da grandi artisti come Leonardo, Raffaello o Guido Reni, ma fu censurato durante la Controriforma dal cardinale Federico Borromeo che nel suo “De pictura sacra” fece notare che la gola e il seno esposto della Vergine andavano mostrati con molta cautela perché distraevano i fedeli.
Sandro Botticelli. Venere
Un famoso caso di censura nel Rinascimento è il Falò delle vanità voluto nel 1497 a Firenze da Girolamo Savonarola: davanti a Palazzo Vecchio andò a fuoco una catasta altissima di migliaia di oggetti, che – oltre ai libri e ai dipinti “immorali” – comprendevano strumenti musicali, canzonieri, abiti e ornamenti di lusso, profumi e cosmetici. Oltre al frate assistevano allo spettacolo anche artisti convertiti al rigore e alla penitenza come Sandro Botticelli, che aveva esaltato il nudo femminile con la sua “Nascita di Venere”, ma che ora guardava senza rammarico incenerirsi i suoi quadri e che si sarebbe da allora in poi occupato solo di opere sacre. Col Cinquecento le arti figurative diventarono uno dei campi di battaglia nello scontro tra protestanti e cattolici. Dalla cittadina di Wittenberg, dove Martin Lutero aveva esposto le sue tesi riformiste, fino a Norimberga, Zurigo e Strasburgo, partì una violenta campagna di distruzione delle immagini sacre - considerate impure perché inducevano alla venerazione pagana dei santi - e che in taluni casi fu fermata dallo stesso Lutero per impedire la sparizione delle opere del grande Albrecht Dűrer. Il Concilio di Trento nelle sue ultime sedute ribadì la funzione didattica dell'arte, considerata una sorta di “Biblia pauperum”, una Bibbia dei poveri che doveva spiegare agli incolti le verità della fede. Da allora in poi nelle zone protestanti d'Europa pittura e scultura furono limitate alla sfera del privato, mentre in area cattolica si cercò di orientare gli artisti a suscitare nei fedeli sentimenti di pietà e devozione, scoraggiando invece la passione per l'antico che era stata una caratteristica del primo Rinascimento. A questo proposito il cardinale bolognese Gabriele Paleotti scrisse verso la fine del Cinquecento un “Discorso”, rimasto incompiuto, sulle immagini sacre e profane in cui si richiamano parroci, artisti e committenza nobiliare a non usare pubblicamente o privatamente figure o situazioni che non fossero strettamente attinenti alle sacre scritture.
Masaccio, la cacciata prima e dopo il restauro
In questa atmosfera si inseriscono due famosi episodi di censura: il Giudizio universale di Michelangelo accusato a causa dei suoi nudi di mancanza di decoro, di oscenità e di tradimento della verità evangelica, e l'Ultima cena di Paolo Veronese, entrambi a rischio di eresia. L'affresco del Buonarroti fu quindi dotato di pannicelli (e il pittore che se ne occupò, Daniele da Volterra, ebbe da allora il soprannome di "braghettone"), mentre il Veronese dovette correggere una figura e cambiare titolo al quadro, che diventò "Il convito in casa di Levi". In seguito raschiature, tunichette, foglie di fico, furono tenacemente applicate ai nudi antichi: ad esempio nelle statue delle collezioni vaticane, nella cappella Bracacci di Firenze - dove Adamo ed Eva di Masaccio e Masolino da Panicale hanno portato fino al 1988 una graziosa sottanina di foglie verdi, mentre una splendida statua di Cristo portacroce di Michelangelo (nudo come la Madonna l'aveva fatto) fu corretta con un panneggio strategico attorcigliato sull'inguine a coprire le cosiddette vergogne. Altri artisti famosi hanno dovuto subire critiche, revisioni e rifiuti: Gian Lorenzo Bernini scolpiva la carne come se fosse stata vera palpitante e quando terminò il suo sensuale gruppo “Apollo e Dafne” fu costretto ad apporre ai piedi un distico moraleggiante che tradotto dal latino fa: “ Chi amando insegue le gioie della bellezza fugace riempie la mano di fronde e bacche amare”. In quanto a Caravaggio le peripezie delle sue opere sono note: dalla Madonna dei Palafrenieri, rifiutata anche a causa di una sant'Anna vecchia e rugosa e da Maria “ritratta vilmente” (con riferimento alla provocante scollatura) alla notissima “Morte della Vergine”, che non rispettava l'iconografia classica dal momento che aveva il viso terreo, il ventre gonfio e i piedi nudi; all'epoca si pensò che l'artista si fosse servito come modella di una prostituta annegata nel Tevere.
Caravaggio. Madonna dei palafrenieri
Si potrebbe scrivere un'enciclopedia sull'argomento “censura”. In Europa non ci fu stato che non l'applicò fino alla Rivoluzione francese che invece l'abolì del tutto, anche se col diminuire del potere della Chiesa e la laicizzazione dei costumi le critiche partirono dalla potente e bigotta classe borghese. Nel 1865 ne fu colpito Manet che espose al Salon di Parigi Olympia, una donna nuda con la mano sul ventre adagiata su un letto, una citazione della Venere di Urbino di Tiziano. Intendiamoci, la rappresentazione del corpo femminile era diffusissima, ma in qualche modo mascherata in un contesto mitologico (ad esempio Venere che sorge dalle acque) e serviva a sollecitare il voyeurismo degli spettatori maschi: lo scandalo di Olympia stava nel fatto che si sapeva che la modella era una prostituta presentata senza infingimenti e ipocrisie di alcun tipo. Un anno dopo Gustave Courbet avrebbe dipinto “L'origine del mondo”, ossia la potente raffigurazione di una vagina; l'opera, ora esposta al Museo d'Orsay di Parigi, era stata commissionata da un diplomatico turco, Khalil-Bey, per la sua personale collezione di quadri erotici, che la teneva nascosta in bagno sotto un pudico telo verde, colore dell'Islam. Il quadro, tranquillamente rintracciabile su Google, è tuttora oggetto di una causa giudiziaria tra un docente francese che l'aveva pubblicato su Facebook e si era visto bloccare il profilo. L'insegnante ha accusato il network (che peraltro pubblica tranquillamente frasi offensive e volgari, causa a volte di suicidi) di non saper distinguere tra arte e pornografia. La sentenza non è stata soddisfacente per l'uomo che non ha ottenuto i 20.000 euro chiesti per il rimborso, ma solo la riammissione dell'opera sul sito, e che è intenzionato a continuare la sua battaglia.
Gustave Courbet, L'origine du monde
Nel Novecento, secolo di tirannie spietate, la censura ha continuato a colpire, anche se in modo diversamente mirato, tramite fascismo e nazismo: Mussolini volle che le arti visive diventassero aree di propaganda, mentre Hitler – che si credeva un artista ma che fu bocciato all'accademia di Vienna – ce l'aveva con la cosiddetta “arte degenerata” delle Avanguardie, oggetto di una mostra che – ironia della sorte – ebbe uno straordinario successo di pubblico. La mania di mettere mutande e reggipetti è continuata nel nuovo Millennio: quando Berlusconi andò al potere scelse come sfondo della sala stampa di palazzo Chigi un quadro del Tiepolo, “La verità svelata dal tempo”. Qualche solerte e anonimo graphic designer ne ritoccò ombelico e capezzoli, che sparirono. Ne seguì una bagarre mediatica tra cui spicca un commento di Mediaset: “Se il presidente comincia a coprire le tette, che fine farà il palinsesto di tutta la rete?” Ora la parete in questione è coperta da un serafico colore azzurro che certamente non farà perdere il sonno agli italiani.
La verità di Giovan Battista Tiepolo col reggipetto

Fonti: 
Cecilia Calvi: La censura nell'arte sacra dopo il Concilio di Trento


lunedì 11 dicembre 2017

La Madonna e il Bambin Gesù nell'arte e nella cultura popolare

In un'epoca che ha istituito il Natale come grande festa del consumo e della gioia forzata e obbligatoria potrebbe sembrare brutto raccontare di come nell'antichità fosse percepita la nascita di Gesù, che era solo raramente associata all'innocenza infantile e alle gioie della maternità, mentre il piccolo spesso non era né bello, né paffuto e – diciamolo pure – un po' zuccheroso come lo si pensa oggi.
Cominciando dall'inizio, tra il III e IV secolo alcuni concili ecclesiastici si occuparono della Madonna per definirne dogmaticamente la natura, innanzitutto come genitrice di Cristo - in greco Theotokos (Madre di Dio) - poi nel suo stato di verginità perpetua col concilio di Costantinopoli. Nello stesso periodo comparvero le prime immagini di Maria col Bimbo in braccio – la più antica nelle catacombe di Priscilla a Roma – che rimarranno un topos dell'arte sacra assieme ad altre caratteristiche raffigurazioni dell'infanzia divina: la nascita, la circoncisione, la presentazione al Tempio di Gerusalemme, l'adorazione dei Magi, la fuga in Egitto e poi – con un Gesù più grandicello – la disputa coi dottori. Nei primi periodi del cristianesimo e durante l'alto Medioevo nell'arte sacra si rappresentò una Vergine stilizzata di impronta bizantina mentre regge un infante decisamente bruttino, con tratti da adulto e a volte perfino stempiato. 

Questo piccolo Gesù serioso era in realtà percepito non come un infante ma come Dio e Signore e quindi nel pieno del suo dominio e della consapevolezza della sua regalità, anche per questo frequentemente vestito di porpora e d'oro, i tessuti indossati dall'imperatore. Ancora della serie “Cristo bambino-adulto” è l'immagine dell'Anapesòn - che si è diffusa solamente in area bizantina - un vero e proprio fanciullone sdraiato a terra e apparentemente addormentato, sorvegliato da due angeli o accudito da Maria. La raffigurazione si ispira alla “Profezia di Giacobbe” della Genesi, in cui si parla del leone di Giuda che pur dormendo veglia, figura che anticipa la venuta di Cristo e la sua vittoria.
Nella primitiva arte cristiana i gesti delle mani della Madre e del Figlio avevano un loro preciso significato che a noi ormai sfugge. Ha pensato a studiarli Chiara Frugoni, la nota medievista che ci ha scritto un libro sopra: “La voce delle immagini. Pillole iconografiche del Medioevo”. La studiosa parte da un'affermazione di Sant'Ambrogio che dichiara come la manifestazione plateale del dolore sia roba da pagani, mentre un vero cristiano deve sopportare la sua pena e financo la morte con dignità e sobrietà. Le indicazioni del vescovo di Milano influenzarono le arti visive dove si pensò di ricorrere solo a movimenti delle dita per indicare cosa stava succedendo: tanto per fare un esempio il noto segno della benedizione eseguito da Gesù – due dita alzate, pollice anulare e mignolo piegati sul palmo – voleva dire che stava parlando, e non certamente con i deliziosi e incomprensibili “maaa baaa ngaaa” di un neonato, ma spiegando piuttosto i sacri e misteriosi contenuti del Verbo.
Con l'avanzare del Medioevo il Cristo bambino e trionfante degli antichi fu sempre di più associato alla sua terribile morte: valga per tutti la Natività dello scultore Lorenzo Maitani che nei suoi bassorilievi sulla facciata del Duomo di Orvieto immagina un Gesù che invece che di giacere in una greppia è adagiato dentro un sarcofago; l'idea della lastra tombale è stata ripresa nel Rinascimento da altri artisti come Giovanni Bellini, che non poche volte fa allungare il tenero corpicino su un piano di marmo gelido. Il colore rosso che spesso compare in queste rappresentazioni è un ulteriore filo conduttore che lega la Madonna al martirio del Figlio: si può trattare dei petali di un garofano, di alcune ciliegie o di un grappolo d'uva che per il suo succo scuro allude al sangue che sarà versato. In altri casi un rametto di corallo è appeso al collo del neonato, secondo un'usanza molto diffusa nell'antichità: il grazioso ciondolo aveva la valenza di un amuleto porta fortuna perché gli antichi erano convinti che scacciasse i fulmini, rendesse le donne fertili e in generale tenesse lontano le disgrazie. Anche animali come il cardellino e il pettirosso furono accostati al piccolo Salvatore: nel Medioevo era usanza regalare ai bambini un uccelletto con cui giocare legandogli una zampetta con un cordoncino. A causa dei loro colori le due bestiole furono considerate anche allusive alla passione; una leggenda antica raccontava come un pettirosso, in origine grigio, si fosse commosso nel vedere Cristo coronato di spine e avesse cercato di toglierne una sporcandosi il piumaggio di sangue: la macchia sarebbe diventata per miracolo un segno indelebile per ricordare a tutti gli uomini la sua generosità.

E' proprio durante il periodo gotico che il rapporto affettivo Madre e Figlio si colorò di connotazioni drammatiche, mentre le espressioni si fecero pensose e malinconiche. Il pittore senese Ambrogio Lorenzetti dipinse una Madonna con un manto molto scuro e un bambinone biondo con gli occhi spalancati e impauriti che quasi stritola l'ala di un cardellino; una vera e propria manifestazione di terrore si dipinge ancora sul volto del piccolo Gesù in un affresco dello stesso artista nella chiesa di Sant'Agostino a Siena. Oltre ai tristi presentimenti si inserirono però anche note intime e affettuose, e si devono ancora una volta al Lorenzetti alcune delle opere in cui ciò che era considerato sacro e distante venne ricondotto a una vibrante e intensa relazione umana. Di questo genere furono le molteplici “Madonne del latte”, effigi realistiche di una mamma che nutre il suo piccino, iconografia che risale all'antico Egitto dove Iside era spesso rappresentata con il neonato Horus attaccato al seno. Il tema ebbe successo e si diffuse in tutta Europa anche perché si riteneva che l'immagine avesse una valenza taumaturgica e proteggesse le puerpere e i loro bambini; mentre si moltiplicavano le reliquie del “Sacro latte” - ce ne sono parecchie anche oggi, anche se la Chiesa cerca di non farne troppa pubblicità - il soggetto fu affrontato da maestri come Leonardo, Raffaello, Michelangelo, e in Francia da Jean Fouquet, che nel dittico di Melun volle rappresentare una elegantissima, sensuale e formosa Madonna col seno scoperto, probabile ritratto di Agnès Sorel, amante del re Carlo VII. 
La figura della Madre di Dio col Bimbo che poppa si prestava però ad equivoci, ed è proprio per questo motivo che nel XVI secolo il Concilio di Trento la considerò sconveniente e cercò di proibirne o almeno limitarne la riproduzione.
Si deve al Rinascimento lo studio anatomico dei corpi umani e l'invenzione della prospettiva, che portò a una arte meno stilizzata e più realistica di quella medievale: Vergine e Figlio furono realizzati con maggior attenzione al naturalismo e a volte perfino senza l'aureola. Raffaello in particolare – pur nella sua breve vita - realizzò una vasta produzione di Madonne che erano vere bellezze dai lineamenti classici e dall'espressione dolcissima, accompagnate da un grosso neonato pasciuto e spesso nudo ma sempre con un fare da adulto, a volte dotato d'un libro, a volte col cardellino o spesso in compagnia di un San Giovannino che gli porge la croce della passione. Accanto alle arti figurative per l'iconografia della nascita e della passione non fu certo secondario il ruolo delle sacre rappresentazioni, drammi liturgici che si diffusero dal Mille fino al XVIII secolo con la partecipazione di attori veri mescolati a sculture lignee per i personaggi principali. Queste bambole – spesso dei reliquiari – erano anche oggetto di devozione popolare, finirono per spargersi per tutta Europa e dettero il via, assieme al famoso presepe francescano di Greccio, a ulteriori installazioni presepiali che sono culminate nella fastosità di quello napoletano.

Intanto a fianco della grande arte comparve una ricca produzione devozionale destinata principalmente alle giovani monache dei conventi. E' noto che in antico – basta pensare alla vicenda della monaca di Monza narrata dal Manzoni – per non compromettere il patrimonio familiare con doti costose, le figlie minori erano forzatamente avviate al convento. La soluzione riempiva questi luoghi di giovani donne scontente che sentivano il desiderio di una vita normale e che erano spesso turbate dalla semplice visione del bel corpo nudo di Cristo crocifisso. Fu quindi per cause morali che nacque “l'arte per le monache” dove i Gesù adulti furono sostituiti dai cosiddetti “Bambini della passione” ossia bambole in legno o terracotta dal viso addolorato e alle prese con croce, chiodi, corone di spine. Queste piccole sculture erano realizzate in totale nudità, e in seguito vestite con indumenti preziosi e intercambiabili a seconda delle festività liturgiche. Una variante del genere conventuale è costituita dai dipinti in cui il piccolo è addormentato sulla croce o si appoggia a un teschio, motivo collegato al tema del “memento mori” (frase che letteralmente significa “ricordati che devi morire”) molto diffuso durante la Controriforma.

L'invenzione della xilografia su matrici di legno – frutto dell'ingegno cinese come la carta, la bussola a la polvere da sparo – e poi della stampa, permise anche la riproduzione in serie di immagini sacre che avevano tra l'altro il vantaggio di costare poco. A partire dal XVI secolo si deve anche ai gesuiti la diffusione dei santini come strumento di propaganda cristiana: i cartoncini decorati diffusero, oltre al culto dei santi, anche quello della coppia Madre e Figlio o semplicemente del secondo rappresentato in varie tipologie: dal Gesù sulla paglia, a quello eucaristico con il calice e l'ostia, al bimbo che regge un agnello innocente, al signore dell'universo col globo crociato in mano, a Gesù Bambino risorto e vittorioso. La produzione delle immaginette si moltiplicò dalla fine del Settecento quando la Chiesa decise di distribuirle col proprio Imprimatur. Grazie alla tecnica ottocentesca della cromolitografia queste opere un po' leziose entrarono in ogni casa finendo per decadere come oggetto devozionale per entrare durante il Novecento nel circuito del collezionismo.

Fonti:
Chiara Frugoni, La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo

giovedì 9 novembre 2017

La basilica di Monreale tra fede e lotte di potere

“Che ciascuno preghi il Dio ch'egli adora! Chi avrà fede nel suo Dio, sentirà la pace in cuore”: è questa la frase di tolleranza e buonsenso che, secondo viaggiatore arabo Ibn Jubayr, fu pronunciata nel 1169 da Guglielmo II di Sicilia in occasione di un forte terremoto che colpì Palermo. Piazzato da Dante in Paradiso, questo re normanno apparteneva alla casata degli Altavilla, una dinastia di uomini provenienti dalla Scandinavia – tra loro si chiamavano Vichinghi – che dall’XI secolo erano scesi in Francia, in Inghilterra, in Spagna, e infine nel sud Italia cercando nuove terre e ricchezze. In vent’anni i Normanni riuscirono a strappare il dominio della Sicilia agli arabi facendone un forte stato feudale; inoltre, contrariamente alla pessima fama di pirati e razziatori senza pietà di cui godevano, non distrussero le culture islamiche e bizantine fiorenti nell’isola, ma ne favorirono l’integrazione pacifica apportandovi anche elementi del linguaggio nordico. Prova ne sia che per le strade selciate, pulite e ordinate di Palermo si potevano sentir parlare latino, greco, arabo, ebraico in una fusione di etnie su cui a quei tempi nessuno aveva da ridire, mentre perfino gli atti pubblici erano redatti in tre lingue. 

Diventato re nel 1166 alla verde età di quattordici anni, Guglielmo II ereditò dai suoi antenati uno stato potente e florido, dotato di un efficiente sistema legislativo che veniva messo in pratica da una solerte e capace burocrazia, mentre il lungo periodo di pace aveva permesso anche di garantire una splendida fioritura artistica. Il ragazzo, ambizioso e determinato, non poté tuttavia esercitare alcuna autorità prima di essere diventato maggiorenne; durante questo lasso di tempo rimase sotto la tutela di un precettore inglese, il vescovo Walter of the Mill - italianizzato in Gualtiero Offamilio - che approfittò largamente della sua posizione per accaparrarsi prerogative che appartenevano allo stato. Quando finalmente Guglielmo assunse il potere le tensioni tra i due sfociarono in lotta aperta. Il motivo scatenante fu la decisione del prelato di traslare il corpo di Ruggero II (avo del giovane monarca) dalla cattedrale di Cefalù al duomo di Palermo, città sotto la sua giurisdizione: il sovrano non la prese bene e decise di rispondere costruendo a Monreale un grande complesso monastico benedettino, con annesso palazzo reale, al centro di un vastissimo territorio che fu sottratto alla diocesi palermitana. Guglielmo raccontò poi che quest’idea gli era venuta da un sogno: addormentatosi sotto a un carrubo, gli era apparsa la Madonna che gli aveva consigliato di scavare sotto l’albero perché avrebbe trovato un tesoro in monete d’oro col quale si sarebbe dovuta costruire una cattedrale in suo nome. Verità, leggenda o semplicemente astuzia? Impossibile stabilirlo, ma sta di fatto che nel giro di poco meno di vent’anni le opere murarie erano finite e si poté iniziare l’immane impresa decorativa. Il duomo di Monreale, dedicato a Santa Maria, sarebbe diventata la basilica più bella della Sicilia e simbolo, assieme agli edifici circostanti, dell’azione e del potere normanni in autonomia dalla Chiesa romana.

Adagiato in una splendida posizione nell’anfiteatro della Conca d’oro, l’attuale complesso rappresenta solo una parte del progetto originario che ha subito nel tempo incendi e rimaneggiamenti, al punto che delle costruzioni medievali rimangono solo in piedi la Chiesa e il chiostro del convento. Non conosciamo il nome dell’architetto che – sotto la supervisione del re - si avvalse di una manodopera ben addestrata proveniente da diverse culture ognuna delle quali lasciò la sua impronta stilistica: araba, greca, pugliese, pisana e veneziana. L’idea iniziale fu di erigere un recinto fortificato – ormai scomparso - all’interno del quale si sviluppavano gli edifici conventuali, la basilica e il palazzo reale; una sorta di “fortilizio della fede” testimoniato dalle due torri massicce tuttora esistenti ai lati della facciata del duomo e che se da un lato esprimevano il carattere guerriero della stirpe normanna, dall’altro dovevano servire come difesa da eventuali attacchi in un territorio in cui la componente islamica era ancora molto forte. Il gusto delle maestranze arabe è ben visibile invece nella struttura dell’abside ad archi intrecciati di tipo moresco - sottolineati dalla policromia delle nervature - e nel chiostro con la fontana angolare a forma di palma.
La posizione della basilica non fu scelta a caso, ma – come era d’uso nel medioevo - sulla base di un preciso orientamento astronomico che permetteva ai raggi del sole di illuminare in determinati periodi dell’anno le immagini interne corrispondenti alle ricorrenze del calendario eucaristico, dall' Annunciazione alla Natività, dalla Crocifissione all' Assunzione in cielo. Al sole come simbolo divino si rifacevano anche le decorazioni del tempio a tre navate, ricoperte da un enorme e brillante tappeto di ben 6.340 metri quadrati di mosaici a fondo d’oro; il duomo traduce così l’idea del Cristo come “Luce di luce e sorgente di luce” già formulata secoli prima da Sant’Ambrogio e alla base di tutta l’arte bizantina. Il luccicare delle tessere era assicurato – oltre che dal tipo di materiale usato – dalla loro inclinazione rispetto alla base muraria sottostante, in modo da permettere una diversa rifrazione dei raggi luminosi. Il centro della narrazione musiva è situato nel catino absidale: un gigantesco mezzo busto del Cristo Pantocratore , dal greco “pantokrátōr”, l’Onnipotente, "Colui che domina tutte le cose", con la mano destra benedicente e le braccia aperte ad accogliere l’universo. Sulle pareti delle navate centrali si dispiegano le storie dell’Antico Testamento, dalla “Creazione del mondo” alla “Lotta tra Giacobbe e l’angelo”; su quelle laterali i miracoli e la predicazione di Gesù; le scene evangeliche continuano nel transetto e nella crociera e terminano con “L’Ascensione al cielo” e “La Pentecoste”; a questi riquadri si aggiunge poi una moltitudine di figure isolate: arcangeli, cherubini e serafini, santi e profeti e - nelle cappelle ai lati dell’abside - storie di san Pietro e san Paolo. 

La complessa struttura del ciclo nasce da un impianto teologico che vuole illustrare i dogmi su cui si basa il pensiero cristiano: dalla storia della salvezza, che inizia con il peccato originale e termina con la missione redentrice di Gesù, all’importanza della liturgia con la rappresentazione dei brani evangelici recitati durante le funzioni annuali, alla centralità di Cristo come Verbo, Vita e Luce degli uomini.Lo stile dei mosaici è straordinariamente uniforme pur nell’evidente declinarsi delle scuole artistiche; colpisce, nonostante la piattezza dei fondi oro, il ricorso ad elementi che suggeriscono una profondità spaziale e un movimento ignoti all’arte bizantina, come l’ondulazione del terreno e lo svolazzare delle vesti. Molti sono i particolari realistici, dalle impalcature e gli strumenti per erigere la torre di Babele, agli animali della creazione del mondo (i pesci nel mare e gli uccelli, tra cui un gufo con gli occhi spalancati). Infine Guglielmo, che aveva un seggio nel presbiterio da cui dominava la basilica, vi si fece rappresentare per ben due volte: vestito come un Basileus bizantino con una lunga stola ricamata di pietre preziose e la massiccia corona a pendenti, da un lato è incoronato da Cristo, dall’altro offre il modello della chiesa alla Vergine. Probabilmente non aveva dimenticato i conflitti con la diocesi palermitana e volle in tal modo ricordare agli astanti che il suo indiscusso potere era sancito solo dall’alto. 
La ricchezza di questo apparato doveva competere con lo splendore dell’arte di Bisanzio e in particolare con Santa Sofia, la grande e antica chiesa situata vicino al palazzo imperiale. Monreale era stata progettata anche per diventare il mausoleo dei re di Sicilia, così quando il sovrano morì si fece seppellire ai piedi dell’altar maggiore, facendo sì che l’officiante dovesse inginocchiarsi sulla sua tomba ogni volta che diceva messa. Il corpo fu in seguito traslato in un sarcofago rinascimentale, accanto a quello che conteneva le spoglie del padre. 
Fonti:
Bianca Maria Alfieri, Il duomo di Monreale, Istituto geografico De Agostini, Novara
Cesare Marchi, I segreti delle cattedrali, Longanesi & C, Milano

venerdì 3 novembre 2017

Le metamorfosi di San Sebastiano: da martire di culto a culto gay

In principio era Apollo: nella mitologia greca questo divinità nota per la sua splendente bellezza androgina, era accostata al sole, alla divinazione e alle arti, comprese quelle mediche. Essendo padre del dio della medicina Asclepio (a Roma Esculapio) lo si invocava per proteggersi dalle malattie e tra i suoi epiteti c’erano “latros” – guaritore – e “apotropaeos”, che tiene lontano il male; Apollo poteva però anche causare terribili malattie come raccontato nell’Iliade, dove si narra della pestilenza con cui aveva punito gli Achei dopo che Agamennone aveva rifiutato di restituire al padre (sacerdote del dio) la figlia Criseide. Tra i suoi attributi c’erano l’arco, le frecce portentose e la cetra, mentre tra i vari animali a lui sacri il cigno, il lupo, le cicale, i delfini e il gallo, simbolo dell’amore omosessuale praticato in Grecia. Era pure chiamato Sminteo, ossia distruttore di topi, che hanno sempre convissuto con l’uomo e nella cui pelliccia si annidano parassiti e agenti patogeni letali.
Con la fine del paganesimo, definitivamente dichiarato fuorilegge con gli editti dell’imperatore Teodosio I (391-392), venne inevitabilmente a cadere l’idea di una figura protettrice della salute; naturalmente ci si poteva appellare alla Vergine Maria ma – potenza delle immagini simboliche – in un’epoca in cui l’aspettativa di vita era molto bassa, gli intermediari celesti tra uomo e Dio non erano mai abbastanza. Con la vittoria del cristianesimo si avviò il culto dei santi e dei martiri tra cui furono inseriti molti guaritori, da quelli generici come i fratelli Cosma e Damiano, che esercitavano la medicina senza farsi pagare, a quelli specializzati come Sant’Agata contro le mastiti e i tumori alle mammelle (che le erano state strappate) a molti altri come Sant’Antonio abate (infallibile per guarire l’herpes zoster), San Bartolomeo apostolo che – dal momento che era stato scuoiato vivo – si invocava per i problemi dermatologici e così via. Tra questi taumaturghi c’era anche San Sebastiano.
Di lui abbiamo scarse notizie, basate sostanzialmente sulla “Passio” – fantasioso racconto del V secolo – e sulla più tarda Legenda Aurea di Iacopo da Varazze. Nato forse a Narbona si era poi trasferito a Milano e si era arruolato nell’esercito romano, dove aveva fatto carriera anche grazie alla simpatia e all’appoggio degli imperatori Massimiano e Diocleziano. Malauguratamente però era cristiano e non ci volle molto perché fosse scoperto e condannato a morte: legato a un palo, fu bersagliato da tante frecce “da sembrare un riccio” e lasciato sul luogo del supplizio; i distratti carnefici tuttavia non controllarono lo stato del giovane, che respirava ancora quando la nobile Irene andò a raccoglierlo per curarlo nella sua casa. Così – una volta guarito – l’aspirante martire cercò lui stesso gli imperatori che questa volta lo fecero ammazzare a frustate nell’ippodromo del Palatino e buttare nella Cloaca massima, certi che in quella fogna puzzolente nessuno l’avrebbe trovato. Sebastiano però era tosto anche da morto e fece in modo di comparire in sogno a un’altra pia matrona per ordinarle di raccogliere i resti e dare loro degna sepoltura presso una catacomba sulla via Appia, da allora chiamata col suo nome. Traslate in seguito in una basilica, le spoglie diventarono popolarissime dopo il 680 quando la fine di una pestilenza a Roma fu attribuita all’intervento miracoloso del Santo; in seguito le sue reliquie furono smembrate e distribuite, mentre il suo culto si estese in tutta Italia e in particolare in meridione. L’associazione col terribile morbo era dovuta proprio al tipo di martirio subito, perché secondo le credenze mediche del tempo, si pensava che nell’aria si celassero miasmi infetti che si diffondevano dappertutto con la velocità di una freccia.
L’ultima metamorfosi dovette causare turbamenti erotici, se il Vasari riferisce di un San Sebastiano dipinto dal domenicano Fra Bartolomeo che aveva “corrotto per leggiadria e lasciva imitazione dal vivo” alcune donne che si erano precipitate in confessionale per raccontare i loro peccaminosi desideri, al punto che il priore decise di nascondere il quadro in un posto appartato del convento. Non sappiamo invece quante fantasie maschili avesse causato all’epoca il languido martire e se il moltiplicarsi dei dipinti fosse causato solo da ardore devozionale. Come attestano le cronache, sodomia e pederastia erano piuttosto diffuse all’epoca: a Venezia era stato addirittura istituito un Collegio dei Sodomiti, che aveva il compito di scoprire e denunciare uomini – e anche donne – che praticavano il peccato bestiale “tacai par da drio” e rischiavano di essere bruciati vivi tra le colonne di piazzetta San Marco. Anche a Firenze c’era una colonia omosessuale, e nel 1514 Nicolò Machiavelli  ne traccia una sorta di mappa raccontando in una lettera l’avventura di tal Giuliano Brancacci uscito una sera a caccia di adolescenti disponibili.
Nel 1624 l’arcivescovo di Milano Federico Borromeo nel suo “De Pictura sacra”, raccomandò invano agli artisti di trascurare la bellezza del Santo per concentrarsi sulle sue ferite e sul significato salvifico del martirio, facendo pure notare che Sebastiano era stato ammazzato in età adulta. Niente da fare: Guido Reni che era devotissimo, vergine, detestava le donne (ma non è provato che fosse gay) ne dipinse addirittura otto versioni in pose differenti; prima di lui si erano cimentati sul soggetto pittori come Sandro Botticelli, Antonello da Messina, Perugino, Vittore Carpaccio, Giovanni Bellini, Andrea Mantegna, Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, Luca Signorelli, Tiziano, per non parlare degli artisti stranieri e di quelli che sarebbero venuti nei secoli successivi. 
Con l’arrivo dell’Illuminismo il nudo conturbante di Sebastiano cominciò a sparire dagli altari per essere destinato al collezionismo privato, mentre lentamente e apertamente veniva riconosciuto come un catalizzatore di desideri omoerotici. Nell’Ottocento fu ritratto da Gustave Moreau, Odilon Redon, Delacroix e Corot - per dirne alcuni – e con l’avvento della fotografia entrò nel catalogo della nuova arte. Il Santo non interessava solo ai pittori, ma anche a scrittori e poeti e non a caso Oscar Wilde, condannato a tre anni di lavori forzati per la sua omosessualità, assunse all’uscita dal carcere lo pseudonimo di Sebastian Melmoth. Nel 1911 Gabriele D’Annunzio mise in scena “Le martyre de Saint Sébastien” su musica di Debussy, in cui il protagonista era incarnato dalla ballerina russa Ida Rubinstejn, talmente magra e pallida da somigliare a un ermafrodito. Il Vate – uno spirito pagano alla costante ricerca del piacere – presentò il suo santo come vittima dell’imperatore Diocleziano che ordinò di ucciderlo dopo avergli dichiarato il suo amore e averne ricevuto un rifiuto. L’opera entrò poi nell’indice dei libri proibiti dalla Chiesa cattolica.
Il martire svolse un ruolo importante nella vita e nelle opere di altri scrittori, da Thomas Mann (La morte a Venezia) che accosta la sua figura a quella del giovane Tadzio amato dal protagonista del romanzo, a Federico Garcìa Lorca, al grande scrittore giapponese Yukio Mishima, a Tennessee Williams che pubblicò una poesia intitolata a San Sebastiano di Sodoma.Anche il cinema si impossessò del mito, prima col film muto “Fabiola” del 1918, replicato nel 1949  con il santo interpretato da Massimo Girotti, e molto più tardi nel 1976, con “Sebastiane” del regista inglese Derek Jarman che sostanzialmente riprese l’idea di D’Annunzio e fece scandalo mostrando nudi maschili e trattando apertamente il suo personaggio non come un santo cristiano, ma come un’icona gay. Al giorno d’oggi col riconoscimento dei diritti LGBT almeno in Europa e in parte dell’America, il culto omosessuale del martire è apertamente praticato da uomini e donne; le sue ferite sono paragonate alle persecuzioni ricevute per aver fatto coming out senza ipocrisia, e del soggetto si sono appropriati artisti come Damien Hirst e Keith Haring. Va aggiunto per completezza che la Chiesa Cattolica considera quest’interpretazione “squallida e dissacrante”; per essa il santo è il “miles Christi” per eccellenza, uomo di eccezionale virtù e simbolo di spiritualità e libertà interiore. 
Anche il mercato si è appropriato del giovane corpo trafitto con esiti a volte molto discutibili: che dire della bambola Ken – il fidanzato di Barbie – appeso a un tronco con relative frecce? L’operazione della Mattel comprende pure altri articoli come un simpatico crocefisso biondo platino in vinile, e una Madonna dello stesso materiale col vestitino in tessuto blu. Cosa non si fa per vendere.
Fonti:
Francesco Danieli, La freccia e la palma, Edizioni universitarie romane

Alfredo Cattabiani, Santi d'Italia, Rizzoli



venerdì 22 settembre 2017

Il fascino pericoloso del ponte

Attraversare un ponte formato da una lunghissima spada: questa la prova più difficile che Lancillotto dovette affrontare per entrare nel regno di Gorre e liberare l'amata regina Ginevra dalle grinfie del perfido Méléagant. Il pericolo era duplice: ferirsi mortalmente con la lama e precipitare nel fiume: “d'acqua traditrice, nera e rumoreggiante, densa e scura orrida e spaventosa come un fiume dell'inferno, tanto pericolosa e profonda che chi vi fosse caduto si sarebbe sicuramente perso”. Questa è la paurosa rappresentazione che Chrétien de Troyes fa dell'unica via di passaggio a disposizione dell'eroe il quale - sprezzante del dolore –si toglie l'armatura e tagliuzzandosi sulla lama passa dall'altra parte, malconcio ma vittorioso. Il poeta francese, vissuto nella seconda metà del XII secolo, quando descrive il “ponte della spada” non parla evidentemente di una costruzione reale ma allude a una metafora: l'eroe può raggiungere il suo scopo solo superando una prova rischiosissima.
Lo stesso tema lo si ritrova nelle tradizioni esoteriche dell'antica Cina dove il viaggio iniziatico verso la conoscenza si compiva attraversando ponti di metallo che alludevano a segrete operazioni alchemiche. La tradizione islamica invece narra di come per giungere al paradiso si debba effettuare lo Sirât, l'attraversamento di un ponte sottile come un capello che solo gli eletti riusciranno a superare laddove i dannati verranno precipitati all'inferno. Ma ci sono ulteriori significati da esaminare: i ponti uniscono Cielo e Terra, il Divino col Mortale come il Bifröst della mitologia scandinava formato da un arcobaleno che arriva fino al mondo degli dei. Costruire un ponte nell'antichità era inoltre considerata una profanazione delle acque, cariche di valenze sacrali, e forse per questo quando i romani si accinsero a realizzare il primo ponte sul divino Tevere - il Sublicio, interamente in legno - lo affidarono al Pontifex Maximus (da cui deriva il nome del Pontefice cristiano) l'unico autorizzato alla sua manutenzione e che ogni anno placava la collera del fiume gettandoci dentro ventisette fantocci di giunchi, probabile ricordo di sacrifici ben più cruenti.
Qualcuno dirà: sono solo vecchie storie. Ma il fascinoso simbolo del ponte compare spesso nei sogni dell'uomo moderno a dimostrazione della sua innegabile vitalità: superare un ostacolo tra due mondi, unire aspetti contrastanti, attraversare un posto pericoloso da cui rischiamo di precipitare. Alcuni periodi della vita sono – come i ponti - passaggi da uno stato all'altro (nascita, infanzia, adolescenza, maturità, vecchiaia e morte) che comportano momenti di crisi e di riadattamento a nuove situazioni, come se ci incamminassimo verso terre inesplorate.
Naturalmente i ponti sono anche opere di architettura e ingegneria, e al giorno d'oggi meravigliose e arditissime costruzioni che sono meta del turismo di massa (a ulteriore dimostrazione che l'immagine del ponte è tuttora capace di emozionare): il Phiton Bridge ad Amsterdam, il pedonale Henderson Waves a Singapore, il Zhivopisny a Mosca, il Tianjin bridge in Cina - l'unico munito di ruota panoramica – e infine il più lungo di tutti, quasi quattro chilometri, l'Akashi Kaikyō in Giappone. Ma non è di questo che qui si vuole parlare, semmai di quelli che affondano la loro tradizione nella storia e in diversi casi nella leggenda.
Possiamo pensare che i primi cacciatori e raccoglitori umani utilizzassero tronchi di legno o liane intrecciate per passare attraverso torrenti o burroni, ma la necessità di costruire più robuste strutture in muratura si fece sentire abbastanza presto se Erodoto racconta che esisteva un ponte in pietra che a Babilonia congiungeva le due rive dell'Eufrate.
Attraversare un grande fiume non doveva essere una questione facile a quei tempi, e infatti quando si doveva portare un esercito da una sponda all'altra si ricorreva ad otri gonfiati d'aria a cui si aggrappavano i soldati, manovra ripresa anche da Alessandro Magno per varcare il Danubio. In Italia dobbiamo i primi ponti agli etruschi, che i romani detestavano al punto da finire per cancellarli dalla faccia della terra, non senza avergli prima copiato la fondamentale invenzione architettonica dell'arco. Nella sua conquista dell'Europa, del Nord Africa e del Medio Oriente Roma disseminò di strade e ponti tutto l'impero, eseguiti con tale maestria che molti sono tuttora esistenti e in funzione; Giulio Cesare ne volle addirittura edificare uno in legno sul Reno, cosa che gli riuscì in una decina di giorni, e solo per dimostrare ai Germani quanto lui fosse bravo e potente. I barbari impressionati se la diedero a gambe e poco dopo il proconsole fece distruggere il suo capolavoro, mentre storici e archeologi sono ancora lì che si chiedono come abbia fatto a realizzarlo in così poco tempo e su un fiume come il Reno, non proprio un ruscello. E' noto che i romani furono ingegneri eccezionali: riuscirono a costruire il sistema delle fondazioni sott'acqua e con Traiano arrivarono a fabbricare un ponte sul Danubio - oggi purtroppo distrutto - lungo più di un chilometro e dotato di venti arcate.

Nel medioevo la competenza dei costruttori di ponti non venne meno, ma in un'epoca superstiziosa in cui chiese e cattedrali si affollavano di figure mostruose, e i bestiari si popolavano di draghi ed animali fantastici, la messa in opera di questo tipo di manufatto fu attribuita quasi esclusivamente al Demonio, i cui servizi si moltiplicarono spinti da una fortissima domanda. Dal 1000 al 1600 circa sorsero in tutta Europa moltissimi Ponti del Diavolo, tutti associati a leggende praticamente simili: un muratore o un architetto fortemente in ritardo scende a patti col diavolo che gli promette di costruirgli il ponte in una notte, purché gli venga ceduta la prima anima che lo oltrepasserà. Il mattino dopo l'astuto artigiano farà attraversare un animale (di solito una capra o un cane, i gatti son troppo furbi) e il maligno resterà gabbato. Anche qui il ponte allude a una situazione pericolosa che terminerà con la sconfitta del male come agente di divisione (il significato della parola “diavolo” deriva dal verbo greco “dia-bàllein”, che significa “separare, creare fratture”). Molti ponti antichi e moderni sono inoltre associati a storie sinistre: il loro ben visibile stato di luogo di passaggio permetteva di esporre come monito alla popolazione le teste dei giustiziati o di impiccarvi qualche malcapitato: è il caso di ponte Sant'Angelo a Roma o di quello di Teramo, detto in dialetto de “li impisi”. Le esecuzioni sui ponti sono andate avanti fino al giorno d'oggi: nel 1992 quello bosniaco di Višegrad sulla Drina fu il testimone silenzioso di una spietata pulizia etnica e ancor più di recente una presunta spia irachena è stata impiccata dall'Isis al ponte di Fallujah.
Una novità medievale furono costruzioni fiancheggiate da case e botteghe, come il Ponte Vecchio a Firenze dove anticamente il governo cittadino volle collocare il mercato della carne che, tra banchi di lombate, costate, ossa e frattaglie malamente conservate, doveva puzzare un bel po' e quindi essere allontanato dalle sensibili narici dei fiorentini. Ponti di questo tipo sorsero un po' dappertutto, anche perché nelle città circondate da mura lo spazio a disposizione per costruire diventava sempre più scarso man mano che la cittadinanza infittiva. Se in Francia ce n'erano ben trentacinque – tre anche a Parigi, sull'Ile de la cité - il ponte abitato più famoso di tutti fu il London Bridge, edificato tra il 1176 e il 1209 e da non confondersi con l'attuale Tower Bridge, molto più tardo. Munito di ruote idrauliche e cancelli che venivano chiusi durante il coprifuoco, il ponte di Londra arrivò a contenere fino a 200 attività commerciali, numerosi appartamenti e perfino una cappella dedicata al santo e martire Thomas Becket. Anche qui c'era l'abitudine di esibire sulle picche le teste mozzate dei traditori, che venivano bollite e incatramate per proteggerle e prolungare il macabro spettacolo; molti crani famosi dondolarono dal ponte, tra cui quelli del ribelle William Wallace (avete mai visto Braveheart?) e del cancelliere e umanista Thomas More che aveva ostacolato il matrimonio di Enrico VIII con Anna Bolena. Con la modernizzazione ottocentesca il London Bridge, stretto, scomodo e soggetto a crolli e incendi, fu abbattuto e sostituito, cosa che giovò al traffico ma fece perdere la testimonianza indimenticabile d'un pezzo di storia inglese.


Sporgersi dalla spalletta di un ponte e guardare sotto può essere uno spettacolo emozionante: è quello che succede quando ci si affaccia dal ponte di Ronda, vicino a Malaga, che unisce la città vecchia a quella nuova, passando su una gola profonda fino a 120 metri, detta “El Tajo”, causata dall'erosione del fiume Guadalevin. Se si vuole invece intraprendere una traversata alla Indiana Jones occorre andare in oriente dove esistono ponti sospesi fatti di bambù o di instabili e tarlate assi di legno come quello lunghissimo di Hussaini, in Pakistan, retto solo da corde e considerato il più pericoloso del mondo. 
Il più alto invece si trova in Cina sulla Huangshan (letteralmente Montagna gialla), una serie di picchi famosi per le bellezze paesaggistiche, la stranezza delle formazioni rocciose, e gli straordinari giochi di luce dovuti alla presenza di nubi che spesso circondano le vette. Il ponte, detto “degli immortali” è a ottocento metri di altezza e congiunge due speroni di roccia: il luogo, che fa parte di un percorso turistico mozzafiato, quando sale la bruma assume un aspetto fiabesco e misterioso,facendo dimenticare che la costruzione è del secolo scorso anche se falsificata con un parapetto in stile cinese antico.

Fonti: