lunedì 11 dicembre 2017

La Madonna e il Bambin Gesù nell'arte e nella cultura popolare

In un'epoca che ha istituito il Natale come grande festa del consumo e della gioia forzata e obbligatoria potrebbe sembrare brutto raccontare di come nell'antichità fosse percepita la nascita di Gesù, che era solo raramente associata all'innocenza infantile e alle gioie della maternità, mentre il piccolo spesso non era né bello, né paffuto e – diciamolo pure – un po' zuccheroso come lo si pensa oggi.
Cominciando dall'inizio, tra il III e IV secolo alcuni concili ecclesiastici si occuparono della Madonna per definirne dogmaticamente la natura, innanzitutto come genitrice di Cristo - in greco Theotokos (Madre di Dio) - poi nel suo stato di verginità perpetua col concilio di Costantinopoli. Nello stesso periodo comparvero le prime immagini di Maria col Bimbo in braccio – la più antica nelle catacombe di Priscilla a Roma – che rimarranno un topos dell'arte sacra assieme ad altre caratteristiche raffigurazioni dell'infanzia divina: la nascita, la circoncisione, la presentazione al Tempio di Gerusalemme, l'adorazione dei Magi, la fuga in Egitto e poi – con un Gesù più grandicello – la disputa coi dottori. Nei primi periodi del cristianesimo e durante l'alto Medioevo nell'arte sacra si rappresentò una Vergine stilizzata di impronta bizantina mentre regge un infante decisamente bruttino, con tratti da adulto e a volte perfino stempiato. 

Questo piccolo Gesù serioso era in realtà percepito non come un infante ma come Dio e Signore e quindi nel pieno del suo dominio e della consapevolezza della sua regalità, anche per questo frequentemente vestito di porpora e d'oro, i tessuti indossati dall'imperatore. Ancora della serie “Cristo bambino-adulto” è l'immagine dell'Anapesòn - che si è diffusa solamente in area bizantina - un vero e proprio fanciullone sdraiato a terra e apparentemente addormentato, sorvegliato da due angeli o accudito da Maria. La raffigurazione si ispira alla “Profezia di Giacobbe” della Genesi, in cui si parla del leone di Giuda che pur dormendo veglia, figura che anticipa la venuta di Cristo e la sua vittoria.
Nella primitiva arte cristiana i gesti delle mani della Madre e del Figlio avevano un loro preciso significato che a noi ormai sfugge. Ha pensato a studiarli Chiara Frugoni, la nota medievista che ci ha scritto un libro sopra: “La voce delle immagini. Pillole iconografiche del Medioevo”. La studiosa parte da un'affermazione di Sant'Ambrogio che dichiara come la manifestazione plateale del dolore sia roba da pagani, mentre un vero cristiano deve sopportare la sua pena e financo la morte con dignità e sobrietà. Le indicazioni del vescovo di Milano influenzarono le arti visive dove si pensò di ricorrere solo a movimenti delle dita per indicare cosa stava succedendo: tanto per fare un esempio il noto segno della benedizione eseguito da Gesù – due dita alzate, pollice anulare e mignolo piegati sul palmo – voleva dire che stava parlando, e non certamente con i deliziosi e incomprensibili “maaa baaa ngaaa” di un neonato, ma spiegando piuttosto i sacri e misteriosi contenuti del Verbo.
Con l'avanzare del Medioevo il Cristo bambino e trionfante degli antichi fu sempre di più associato alla sua terribile morte: valga per tutti la Natività dello scultore Lorenzo Maitani che nei suoi bassorilievi sulla facciata del Duomo di Orvieto immagina un Gesù che invece che di giacere in una greppia è adagiato dentro un sarcofago; l'idea della lastra tombale è stata ripresa nel Rinascimento da altri artisti come Giovanni Bellini, che non poche volte fa allungare il tenero corpicino su un piano di marmo gelido. Il colore rosso che spesso compare in queste rappresentazioni è un ulteriore filo conduttore che lega la Madonna al martirio del Figlio: si può trattare dei petali di un garofano, di alcune ciliegie o di un grappolo d'uva che per il suo succo scuro allude al sangue che sarà versato. In altri casi un rametto di corallo è appeso al collo del neonato, secondo un'usanza molto diffusa nell'antichità: il grazioso ciondolo aveva la valenza di un amuleto porta fortuna perché gli antichi erano convinti che scacciasse i fulmini, rendesse le donne fertili e in generale tenesse lontano le disgrazie. Anche animali come il cardellino e il pettirosso furono accostati al piccolo Salvatore: nel Medioevo era usanza regalare ai bambini un uccelletto con cui giocare legandogli una zampetta con un cordoncino. A causa dei loro colori le due bestiole furono considerate anche allusive alla passione; una leggenda antica raccontava come un pettirosso, in origine grigio, si fosse commosso nel vedere Cristo coronato di spine e avesse cercato di toglierne una sporcandosi il piumaggio di sangue: la macchia sarebbe diventata per miracolo un segno indelebile per ricordare a tutti gli uomini la sua generosità.

E' proprio durante il periodo gotico che il rapporto affettivo Madre e Figlio si colorò di connotazioni drammatiche, mentre le espressioni si fecero pensose e malinconiche. Il pittore senese Ambrogio Lorenzetti dipinse una Madonna con un manto molto scuro e un bambinone biondo con gli occhi spalancati e impauriti che quasi stritola l'ala di un cardellino; una vera e propria manifestazione di terrore si dipinge ancora sul volto del piccolo Gesù in un affresco dello stesso artista nella chiesa di Sant'Agostino a Siena. Oltre ai tristi presentimenti si inserirono però anche note intime e affettuose, e si devono ancora una volta al Lorenzetti alcune delle opere in cui ciò che era considerato sacro e distante venne ricondotto a una vibrante e intensa relazione umana. Di questo genere furono le molteplici “Madonne del latte”, effigi realistiche di una mamma che nutre il suo piccino, iconografia che risale all'antico Egitto dove Iside era spesso rappresentata con il neonato Horus attaccato al seno. Il tema ebbe successo e si diffuse in tutta Europa anche perché si riteneva che l'immagine avesse una valenza taumaturgica e proteggesse le puerpere e i loro bambini; mentre si moltiplicavano le reliquie del “Sacro latte” - ce ne sono parecchie anche oggi, anche se la Chiesa cerca di non farne troppa pubblicità - il soggetto fu affrontato da maestri come Leonardo, Raffaello, Michelangelo, e in Francia da Jean Fouquet, che nel dittico di Melun volle rappresentare una elegantissima, sensuale e formosa Madonna col seno scoperto, probabile ritratto di Agnès Sorel, amante del re Carlo VII. 
La figura della Madre di Dio col Bimbo che poppa si prestava però ad equivoci, ed è proprio per questo motivo che nel XVI secolo il Concilio di Trento la considerò sconveniente e cercò di proibirne o almeno limitarne la riproduzione.
Si deve al Rinascimento lo studio anatomico dei corpi umani e l'invenzione della prospettiva, che portò a una arte meno stilizzata e più realistica di quella medievale: Vergine e Figlio furono realizzati con maggior attenzione al naturalismo e a volte perfino senza l'aureola. Raffaello in particolare – pur nella sua breve vita - realizzò una vasta produzione di Madonne che erano vere bellezze dai lineamenti classici e dall'espressione dolcissima, accompagnate da un grosso neonato pasciuto e spesso nudo ma sempre con un fare da adulto, a volte dotato d'un libro, a volte col cardellino o spesso in compagnia di un San Giovannino che gli porge la croce della passione. Accanto alle arti figurative per l'iconografia della nascita e della passione non fu certo secondario il ruolo delle sacre rappresentazioni, drammi liturgici che si diffusero dal Mille fino al XVIII secolo con la partecipazione di attori veri mescolati a sculture lignee per i personaggi principali. Queste bambole – spesso dei reliquiari – erano anche oggetto di devozione popolare, finirono per spargersi per tutta Europa e dettero il via, assieme al famoso presepe francescano di Greccio, a ulteriori installazioni presepiali che sono culminate nella fastosità di quello napoletano.

Intanto a fianco della grande arte comparve una ricca produzione devozionale destinata principalmente alle giovani monache dei conventi. E' noto che in antico – basta pensare alla vicenda della monaca di Monza narrata dal Manzoni – per non compromettere il patrimonio familiare con doti costose, le figlie minori erano forzatamente avviate al convento. La soluzione riempiva questi luoghi di giovani donne scontente che sentivano il desiderio di una vita normale e che erano spesso turbate dalla semplice visione del bel corpo nudo di Cristo crocifisso. Fu quindi per cause morali che nacque “l'arte per le monache” dove i Gesù adulti furono sostituiti dai cosiddetti “Bambini della passione” ossia bambole in legno o terracotta dal viso addolorato e alle prese con croce, chiodi, corone di spine. Queste piccole sculture erano realizzate in totale nudità, e in seguito vestite con indumenti preziosi e intercambiabili a seconda delle festività liturgiche. Una variante del genere conventuale è costituita dai dipinti in cui il piccolo è addormentato sulla croce o si appoggia a un teschio, motivo collegato al tema del “memento mori” (frase che letteralmente significa “ricordati che devi morire”) molto diffuso durante la Controriforma.

L'invenzione della xilografia su matrici di legno – frutto dell'ingegno cinese come la carta, la bussola a la polvere da sparo – e poi della stampa, permise anche la riproduzione in serie di immagini sacre che avevano tra l'altro il vantaggio di costare poco. A partire dal XVI secolo si deve anche ai gesuiti la diffusione dei santini come strumento di propaganda cristiana: i cartoncini decorati diffusero, oltre al culto dei santi, anche quello della coppia Madre e Figlio o semplicemente del secondo rappresentato in varie tipologie: dal Gesù sulla paglia, a quello eucaristico con il calice e l'ostia, al bimbo che regge un agnello innocente, al signore dell'universo col globo crociato in mano, a Gesù Bambino risorto e vittorioso. La produzione delle immaginette si moltiplicò dalla fine del Settecento quando la Chiesa decise di distribuirle col proprio Imprimatur. Grazie alla tecnica ottocentesca della cromolitografia queste opere un po' leziose entrarono in ogni casa finendo per decadere come oggetto devozionale per entrare durante il Novecento nel circuito del collezionismo.

Fonti:
Chiara Frugoni, La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo

giovedì 9 novembre 2017

La basilica di Monreale tra fede e lotte di potere

“Che ciascuno preghi il Dio ch'egli adora! Chi avrà fede nel suo Dio, sentirà la pace in cuore”: è questa la frase di tolleranza e buonsenso che, secondo viaggiatore arabo Ibn Jubayr, fu pronunciata nel 1169 da Guglielmo II di Sicilia in occasione di un forte terremoto che colpì Palermo. Piazzato da Dante in Paradiso, questo re normanno apparteneva alla casata degli Altavilla, una dinastia di uomini provenienti dalla Scandinavia – tra loro si chiamavano Vichinghi – che dall’XI secolo erano scesi in Francia, in Inghilterra, in Spagna, e infine nel sud Italia cercando nuove terre e ricchezze. In vent’anni i Normanni riuscirono a strappare il dominio della Sicilia agli arabi facendone un forte stato feudale; inoltre, contrariamente alla pessima fama di pirati e razziatori senza pietà di cui godevano, non distrussero le culture islamiche e bizantine fiorenti nell’isola, ma ne favorirono l’integrazione pacifica apportandovi anche elementi del linguaggio nordico. Prova ne sia che per le strade selciate, pulite e ordinate di Palermo si potevano sentir parlare latino, greco, arabo, ebraico in una fusione di etnie su cui a quei tempi nessuno aveva da ridire, mentre perfino gli atti pubblici erano redatti in tre lingue. 

Diventato re nel 1166 alla verde età di quattordici anni, Guglielmo II ereditò dai suoi antenati uno stato potente e florido, dotato di un efficiente sistema legislativo che veniva messo in pratica da una solerte e capace burocrazia, mentre il lungo periodo di pace aveva permesso anche di garantire una splendida fioritura artistica. Il ragazzo, ambizioso e determinato, non poté tuttavia esercitare alcuna autorità prima di essere diventato maggiorenne; durante questo lasso di tempo rimase sotto la tutela di un precettore inglese, il vescovo Walter of the Mill - italianizzato in Gualtiero Offamilio - che approfittò largamente della sua posizione per accaparrarsi prerogative che appartenevano allo stato. Quando finalmente Guglielmo assunse il potere le tensioni tra i due sfociarono in lotta aperta. Il motivo scatenante fu la decisione del prelato di traslare il corpo di Ruggero II (avo del giovane monarca) dalla cattedrale di Cefalù al duomo di Palermo, città sotto la sua giurisdizione: il sovrano non la prese bene e decise di rispondere costruendo a Monreale un grande complesso monastico benedettino, con annesso palazzo reale, al centro di un vastissimo territorio che fu sottratto alla diocesi palermitana. Guglielmo raccontò poi che quest’idea gli era venuta da un sogno: addormentatosi sotto a un carrubo, gli era apparsa la Madonna che gli aveva consigliato di scavare sotto l’albero perché avrebbe trovato un tesoro in monete d’oro col quale si sarebbe dovuta costruire una cattedrale in suo nome. Verità, leggenda o semplicemente astuzia? Impossibile stabilirlo, ma sta di fatto che nel giro di poco meno di vent’anni le opere murarie erano finite e si poté iniziare l’immane impresa decorativa. Il duomo di Monreale, dedicato a Santa Maria, sarebbe diventata la basilica più bella della Sicilia e simbolo, assieme agli edifici circostanti, dell’azione e del potere normanni in autonomia dalla Chiesa romana.

Adagiato in una splendida posizione nell’anfiteatro della Conca d’oro, l’attuale complesso rappresenta solo una parte del progetto originario che ha subito nel tempo incendi e rimaneggiamenti, al punto che delle costruzioni medievali rimangono solo in piedi la Chiesa e il chiostro del convento. Non conosciamo il nome dell’architetto che – sotto la supervisione del re - si avvalse di una manodopera ben addestrata proveniente da diverse culture ognuna delle quali lasciò la sua impronta stilistica: araba, greca, pugliese, pisana e veneziana. L’idea iniziale fu di erigere un recinto fortificato – ormai scomparso - all’interno del quale si sviluppavano gli edifici conventuali, la basilica e il palazzo reale; una sorta di “fortilizio della fede” testimoniato dalle due torri massicce tuttora esistenti ai lati della facciata del duomo e che se da un lato esprimevano il carattere guerriero della stirpe normanna, dall’altro dovevano servire come difesa da eventuali attacchi in un territorio in cui la componente islamica era ancora molto forte. Il gusto delle maestranze arabe è ben visibile invece nella struttura dell’abside ad archi intrecciati di tipo moresco - sottolineati dalla policromia delle nervature - e nel chiostro con la fontana angolare a forma di palma.
La posizione della basilica non fu scelta a caso, ma – come era d’uso nel medioevo - sulla base di un preciso orientamento astronomico che permetteva ai raggi del sole di illuminare in determinati periodi dell’anno le immagini interne corrispondenti alle ricorrenze del calendario eucaristico, dall' Annunciazione alla Natività, dalla Crocifissione all' Assunzione in cielo. Al sole come simbolo divino si rifacevano anche le decorazioni del tempio a tre navate, ricoperte da un enorme e brillante tappeto di ben 6.340 metri quadrati di mosaici a fondo d’oro; il duomo traduce così l’idea del Cristo come “Luce di luce e sorgente di luce” già formulata secoli prima da Sant’Ambrogio e alla base di tutta l’arte bizantina. Il luccicare delle tessere era assicurato – oltre che dal tipo di materiale usato – dalla loro inclinazione rispetto alla base muraria sottostante, in modo da permettere una diversa rifrazione dei raggi luminosi. Il centro della narrazione musiva è situato nel catino absidale: un gigantesco mezzo busto del Cristo Pantocratore , dal greco “pantokrátōr”, l’Onnipotente, "Colui che domina tutte le cose", con la mano destra benedicente e le braccia aperte ad accogliere l’universo. Sulle pareti delle navate centrali si dispiegano le storie dell’Antico Testamento, dalla “Creazione del mondo” alla “Lotta tra Giacobbe e l’angelo”; su quelle laterali i miracoli e la predicazione di Gesù; le scene evangeliche continuano nel transetto e nella crociera e terminano con “L’Ascensione al cielo” e “La Pentecoste”; a questi riquadri si aggiunge poi una moltitudine di figure isolate: arcangeli, cherubini e serafini, santi e profeti e - nelle cappelle ai lati dell’abside - storie di san Pietro e san Paolo. 

La complessa struttura del ciclo nasce da un impianto teologico che vuole illustrare i dogmi su cui si basa il pensiero cristiano: dalla storia della salvezza, che inizia con il peccato originale e termina con la missione redentrice di Gesù, all’importanza della liturgia con la rappresentazione dei brani evangelici recitati durante le funzioni annuali, alla centralità di Cristo come Verbo, Vita e Luce degli uomini.Lo stile dei mosaici è straordinariamente uniforme pur nell’evidente declinarsi delle scuole artistiche; colpisce, nonostante la piattezza dei fondi oro, il ricorso ad elementi che suggeriscono una profondità spaziale e un movimento ignoti all’arte bizantina, come l’ondulazione del terreno e lo svolazzare delle vesti. Molti sono i particolari realistici, dalle impalcature e gli strumenti per erigere la torre di Babele, agli animali della creazione del mondo (i pesci nel mare e gli uccelli, tra cui un gufo con gli occhi spalancati). Infine Guglielmo, che aveva un seggio nel presbiterio da cui dominava la basilica, vi si fece rappresentare per ben due volte: vestito come un Basileus bizantino con una lunga stola ricamata di pietre preziose e la massiccia corona a pendenti, da un lato è incoronato da Cristo, dall’altro offre il modello della chiesa alla Vergine. Probabilmente non aveva dimenticato i conflitti con la diocesi palermitana e volle in tal modo ricordare agli astanti che il suo indiscusso potere era sancito solo dall’alto. 
La ricchezza di questo apparato doveva competere con lo splendore dell’arte di Bisanzio e in particolare con Santa Sofia, la grande e antica chiesa situata vicino al palazzo imperiale. Monreale era stata progettata anche per diventare il mausoleo dei re di Sicilia, così quando il sovrano morì si fece seppellire ai piedi dell’altar maggiore, facendo sì che l’officiante dovesse inginocchiarsi sulla sua tomba ogni volta che diceva messa. Il corpo fu in seguito traslato in un sarcofago rinascimentale, accanto a quello che conteneva le spoglie del padre. 
Fonti:
Bianca Maria Alfieri, Il duomo di Monreale, Istituto geografico De Agostini, Novara
Cesare Marchi, I segreti delle cattedrali, Longanesi & C, Milano

venerdì 3 novembre 2017

Le metamorfosi di San Sebastiano: da martire di culto a culto gay

In principio era Apollo: nella mitologia greca questo divinità nota per la sua splendente bellezza androgina, era accostata al sole, alla divinazione e alle arti, comprese quelle mediche. Essendo padre del dio della medicina Asclepio (a Roma Esculapio) lo si invocava per proteggersi dalle malattie e tra i suoi epiteti c’erano “latros” – guaritore – e “apotropaeos”, che tiene lontano il male; Apollo poteva però anche causare terribili malattie come raccontato nell’Iliade, dove si narra della pestilenza con cui aveva punito gli Achei dopo che Agamennone aveva rifiutato di restituire al padre (sacerdote del dio) la figlia Criseide. Tra i suoi attributi c’erano l’arco, le frecce portentose e la cetra, mentre tra i vari animali a lui sacri il cigno, il lupo, le cicale, i delfini e il gallo, simbolo dell’amore omosessuale praticato in Grecia. Era pure chiamato Sminteo, ossia distruttore di topi, che hanno sempre convissuto con l’uomo e nella cui pelliccia si annidano parassiti e agenti patogeni letali.
Con la fine del paganesimo, definitivamente dichiarato fuorilegge con gli editti dell’imperatore Teodosio I (391-392), venne inevitabilmente a cadere l’idea di una figura protettrice della salute; naturalmente ci si poteva appellare alla Vergine Maria ma – potenza delle immagini simboliche – in un’epoca in cui l’aspettativa di vita era molto bassa, gli intermediari celesti tra uomo e Dio non erano mai abbastanza. Con la vittoria del cristianesimo si avviò il culto dei santi e dei martiri tra cui furono inseriti molti guaritori, da quelli generici come i fratelli Cosma e Damiano, che esercitavano la medicina senza farsi pagare, a quelli specializzati come Sant’Agata contro le mastiti e i tumori alle mammelle (che le erano state strappate) a molti altri come Sant’Antonio abate (infallibile per guarire l’herpes zoster), San Bartolomeo apostolo che – dal momento che era stato scuoiato vivo – si invocava per i problemi dermatologici e così via. Tra questi taumaturghi c’era anche San Sebastiano.
Di lui abbiamo scarse notizie, basate sostanzialmente sulla “Passio” – fantasioso racconto del V secolo – e sulla più tarda Legenda Aurea di Iacopo da Varazze. Nato forse a Narbona si era poi trasferito a Milano e si era arruolato nell’esercito romano, dove aveva fatto carriera anche grazie alla simpatia e all’appoggio degli imperatori Massimiano e Diocleziano. Malauguratamente però era cristiano e non ci volle molto perché fosse scoperto e condannato a morte: legato a un palo, fu bersagliato da tante frecce “da sembrare un riccio” e lasciato sul luogo del supplizio; i distratti carnefici tuttavia non controllarono lo stato del giovane, che respirava ancora quando la nobile Irene andò a raccoglierlo per curarlo nella sua casa. Così – una volta guarito – l’aspirante martire cercò lui stesso gli imperatori che questa volta lo fecero ammazzare a frustate nell’ippodromo del Palatino e buttare nella Cloaca massima, certi che in quella fogna puzzolente nessuno l’avrebbe trovato. Sebastiano però era tosto anche da morto e fece in modo di comparire in sogno a un’altra pia matrona per ordinarle di raccogliere i resti e dare loro degna sepoltura presso una catacomba sulla via Appia, da allora chiamata col suo nome. Traslate in seguito in una basilica, le spoglie diventarono popolarissime dopo il 680 quando la fine di una pestilenza a Roma fu attribuita all’intervento miracoloso del Santo; in seguito le sue reliquie furono smembrate e distribuite, mentre il suo culto si estese in tutta Italia e in particolare in meridione. L’associazione col terribile morbo era dovuta proprio al tipo di martirio subito, perché secondo le credenze mediche del tempo, si pensava che nell’aria si celassero miasmi infetti che si diffondevano dappertutto con la velocità di una freccia.
L’ultima metamorfosi dovette causare turbamenti erotici, se il Vasari riferisce di un San Sebastiano dipinto dal domenicano Fra Bartolomeo che aveva “corrotto per leggiadria e lasciva imitazione dal vivo” alcune donne che si erano precipitate in confessionale per raccontare i loro peccaminosi desideri, al punto che il priore decise di nascondere il quadro in un posto appartato del convento. Non sappiamo invece quante fantasie maschili avesse causato all’epoca il languido martire e se il moltiplicarsi dei dipinti fosse causato solo da ardore devozionale. Come attestano le cronache, sodomia e pederastia erano piuttosto diffuse all’epoca: a Venezia era stato addirittura istituito un Collegio dei Sodomiti, che aveva il compito di scoprire e denunciare uomini – e anche donne – che praticavano il peccato bestiale “tacai par da drio” e rischiavano di essere bruciati vivi tra le colonne di piazzetta San Marco. Anche a Firenze c’era una colonia omosessuale, e nel 1514 Nicolò Machiavelli  ne traccia una sorta di mappa raccontando in una lettera l’avventura di tal Giuliano Brancacci uscito una sera a caccia di adolescenti disponibili.
Nel 1624 l’arcivescovo di Milano Federico Borromeo nel suo “De Pictura sacra”, raccomandò invano agli artisti di trascurare la bellezza del Santo per concentrarsi sulle sue ferite e sul significato salvifico del martirio, facendo pure notare che Sebastiano era stato ammazzato in età adulta. Niente da fare: Guido Reni che era devotissimo, vergine, detestava le donne (ma non è provato che fosse gay) ne dipinse addirittura otto versioni in pose differenti; prima di lui si erano cimentati sul soggetto pittori come Sandro Botticelli, Antonello da Messina, Perugino, Vittore Carpaccio, Giovanni Bellini, Andrea Mantegna, Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, Luca Signorelli, Tiziano, per non parlare degli artisti stranieri e di quelli che sarebbero venuti nei secoli successivi. 
Con l’arrivo dell’Illuminismo il nudo conturbante di Sebastiano cominciò a sparire dagli altari per essere destinato al collezionismo privato, mentre lentamente e apertamente veniva riconosciuto come un catalizzatore di desideri omoerotici. Nell’Ottocento fu ritratto da Gustave Moreau, Odilon Redon, Delacroix e Corot - per dirne alcuni – e con l’avvento della fotografia entrò nel catalogo della nuova arte. Il Santo non interessava solo ai pittori, ma anche a scrittori e poeti e non a caso Oscar Wilde, condannato a tre anni di lavori forzati per la sua omosessualità, assunse all’uscita dal carcere lo pseudonimo di Sebastian Melmoth. Nel 1911 Gabriele D’Annunzio mise in scena “Le martyre de Saint Sébastien” su musica di Debussy, in cui il protagonista era incarnato dalla ballerina russa Ida Rubinstejn, talmente magra e pallida da somigliare a un ermafrodito. Il Vate – uno spirito pagano alla costante ricerca del piacere – presentò il suo santo come vittima dell’imperatore Diocleziano che ordinò di ucciderlo dopo avergli dichiarato il suo amore e averne ricevuto un rifiuto. L’opera entrò poi nell’indice dei libri proibiti dalla Chiesa cattolica.
Il martire svolse un ruolo importante nella vita e nelle opere di altri scrittori, da Thomas Mann (La morte a Venezia) che accosta la sua figura a quella del giovane Tadzio amato dal protagonista del romanzo, a Federico Garcìa Lorca, al grande scrittore giapponese Yukio Mishima, a Tennessee Williams che pubblicò una poesia intitolata a San Sebastiano di Sodoma.Anche il cinema si impossessò del mito, prima col film muto “Fabiola” del 1918, replicato nel 1949  con il santo interpretato da Massimo Girotti, e molto più tardi nel 1976, con “Sebastiane” del regista inglese Derek Jarman che sostanzialmente riprese l’idea di D’Annunzio e fece scandalo mostrando nudi maschili e trattando apertamente il suo personaggio non come un santo cristiano, ma come un’icona gay. Al giorno d’oggi col riconoscimento dei diritti LGBT almeno in Europa e in parte dell’America, il culto omosessuale del martire è apertamente praticato da uomini e donne; le sue ferite sono paragonate alle persecuzioni ricevute per aver fatto coming out senza ipocrisia, e del soggetto si sono appropriati artisti come Damien Hirst e Keith Haring. Va aggiunto per completezza che la Chiesa Cattolica considera quest’interpretazione “squallida e dissacrante”; per essa il santo è il “miles Christi” per eccellenza, uomo di eccezionale virtù e simbolo di spiritualità e libertà interiore. 
Anche il mercato si è appropriato del giovane corpo trafitto con esiti a volte molto discutibili: che dire della bambola Ken – il fidanzato di Barbie – appeso a un tronco con relative frecce? L’operazione della Mattel comprende pure altri articoli come un simpatico crocefisso biondo platino in vinile, e una Madonna dello stesso materiale col vestitino in tessuto blu. Cosa non si fa per vendere.
Fonti:
Francesco Danieli, La freccia e la palma, Edizioni universitarie romane

Alfredo Cattabiani, Santi d'Italia, Rizzoli



venerdì 22 settembre 2017

Il fascino pericoloso del ponte

Attraversare un ponte formato da una lunghissima spada: questa la prova più difficile che Lancillotto dovette affrontare per entrare nel regno di Gorre e liberare l'amata regina Ginevra dalle grinfie del perfido Méléagant. Il pericolo era duplice: ferirsi mortalmente con la lama e precipitare nel fiume: “d'acqua traditrice, nera e rumoreggiante, densa e scura orrida e spaventosa come un fiume dell'inferno, tanto pericolosa e profonda che chi vi fosse caduto si sarebbe sicuramente perso”. Questa è la paurosa rappresentazione che Chrétien de Troyes fa dell'unica via di passaggio a disposizione dell'eroe il quale - sprezzante del dolore –si toglie l'armatura e tagliuzzandosi sulla lama passa dall'altra parte, malconcio ma vittorioso. Il poeta francese, vissuto nella seconda metà del XII secolo, quando descrive il “ponte della spada” non parla evidentemente di una costruzione reale ma allude a una metafora: l'eroe può raggiungere il suo scopo solo superando una prova rischiosissima.
Lo stesso tema lo si ritrova nelle tradizioni esoteriche dell'antica Cina dove il viaggio iniziatico verso la conoscenza si compiva attraversando ponti di metallo che alludevano a segrete operazioni alchemiche. La tradizione islamica invece narra di come per giungere al paradiso si debba effettuare lo Sirât, l'attraversamento di un ponte sottile come un capello che solo gli eletti riusciranno a superare laddove i dannati verranno precipitati all'inferno. Ma ci sono ulteriori significati da esaminare: i ponti uniscono Cielo e Terra, il Divino col Mortale come il Bifröst della mitologia scandinava formato da un arcobaleno che arriva fino al mondo degli dei. Costruire un ponte nell'antichità era inoltre considerata una profanazione delle acque, cariche di valenze sacrali, e forse per questo quando i romani si accinsero a realizzare il primo ponte sul divino Tevere - il Sublicio, interamente in legno - lo affidarono al Pontifex Maximus (da cui deriva il nome del Pontefice cristiano) l'unico autorizzato alla sua manutenzione e che ogni anno placava la collera del fiume gettandoci dentro ventisette fantocci di giunchi, probabile ricordo di sacrifici ben più cruenti.
Qualcuno dirà: sono solo vecchie storie. Ma il fascinoso simbolo del ponte compare spesso nei sogni dell'uomo moderno a dimostrazione della sua innegabile vitalità: superare un ostacolo tra due mondi, unire aspetti contrastanti, attraversare un posto pericoloso da cui rischiamo di precipitare. Alcuni periodi della vita sono – come i ponti - passaggi da uno stato all'altro (nascita, infanzia, adolescenza, maturità, vecchiaia e morte) che comportano momenti di crisi e di riadattamento a nuove situazioni, come se ci incamminassimo verso terre inesplorate.
Naturalmente i ponti sono anche opere di architettura e ingegneria, e al giorno d'oggi meravigliose e arditissime costruzioni che sono meta del turismo di massa (a ulteriore dimostrazione che l'immagine del ponte è tuttora capace di emozionare): il Phiton Bridge ad Amsterdam, il pedonale Henderson Waves a Singapore, il Zhivopisny a Mosca, il Tianjin bridge in Cina - l'unico munito di ruota panoramica – e infine il più lungo di tutti, quasi quattro chilometri, l'Akashi Kaikyō in Giappone. Ma non è di questo che qui si vuole parlare, semmai di quelli che affondano la loro tradizione nella storia e in diversi casi nella leggenda.
Possiamo pensare che i primi cacciatori e raccoglitori umani utilizzassero tronchi di legno o liane intrecciate per passare attraverso torrenti o burroni, ma la necessità di costruire più robuste strutture in muratura si fece sentire abbastanza presto se Erodoto racconta che esisteva un ponte in pietra che a Babilonia congiungeva le due rive dell'Eufrate.
Attraversare un grande fiume non doveva essere una questione facile a quei tempi, e infatti quando si doveva portare un esercito da una sponda all'altra si ricorreva ad otri gonfiati d'aria a cui si aggrappavano i soldati, manovra ripresa anche da Alessandro Magno per varcare il Danubio. In Italia dobbiamo i primi ponti agli etruschi, che i romani detestavano al punto da finire per cancellarli dalla faccia della terra, non senza avergli prima copiato la fondamentale invenzione architettonica dell'arco. Nella sua conquista dell'Europa, del Nord Africa e del Medio Oriente Roma disseminò di strade e ponti tutto l'impero, eseguiti con tale maestria che molti sono tuttora esistenti e in funzione; Giulio Cesare ne volle addirittura edificare uno in legno sul Reno, cosa che gli riuscì in una decina di giorni, e solo per dimostrare ai Germani quanto lui fosse bravo e potente. I barbari impressionati se la diedero a gambe e poco dopo il proconsole fece distruggere il suo capolavoro, mentre storici e archeologi sono ancora lì che si chiedono come abbia fatto a realizzarlo in così poco tempo e su un fiume come il Reno, non proprio un ruscello. E' noto che i romani furono ingegneri eccezionali: riuscirono a costruire il sistema delle fondazioni sott'acqua e con Traiano arrivarono a fabbricare un ponte sul Danubio - oggi purtroppo distrutto - lungo più di un chilometro e dotato di venti arcate.

Nel medioevo la competenza dei costruttori di ponti non venne meno, ma in un'epoca superstiziosa in cui chiese e cattedrali si affollavano di figure mostruose, e i bestiari si popolavano di draghi ed animali fantastici, la messa in opera di questo tipo di manufatto fu attribuita quasi esclusivamente al Demonio, i cui servizi si moltiplicarono spinti da una fortissima domanda. Dal 1000 al 1600 circa sorsero in tutta Europa moltissimi Ponti del Diavolo, tutti associati a leggende praticamente simili: un muratore o un architetto fortemente in ritardo scende a patti col diavolo che gli promette di costruirgli il ponte in una notte, purché gli venga ceduta la prima anima che lo oltrepasserà. Il mattino dopo l'astuto artigiano farà attraversare un animale (di solito una capra o un cane, i gatti son troppo furbi) e il maligno resterà gabbato. Anche qui il ponte allude a una situazione pericolosa che terminerà con la sconfitta del male come agente di divisione (il significato della parola “diavolo” deriva dal verbo greco “dia-bàllein”, che significa “separare, creare fratture”). Molti ponti antichi e moderni sono inoltre associati a storie sinistre: il loro ben visibile stato di luogo di passaggio permetteva di esporre come monito alla popolazione le teste dei giustiziati o di impiccarvi qualche malcapitato: è il caso di ponte Sant'Angelo a Roma o di quello di Teramo, detto in dialetto de “li impisi”. Le esecuzioni sui ponti sono andate avanti fino al giorno d'oggi: nel 1992 quello bosniaco di Višegrad sulla Drina fu il testimone silenzioso di una spietata pulizia etnica e ancor più di recente una presunta spia irachena è stata impiccata dall'Isis al ponte di Fallujah.
Una novità medievale furono costruzioni fiancheggiate da case e botteghe, come il Ponte Vecchio a Firenze dove anticamente il governo cittadino volle collocare il mercato della carne che, tra banchi di lombate, costate, ossa e frattaglie malamente conservate, doveva puzzare un bel po' e quindi essere allontanato dalle sensibili narici dei fiorentini. Ponti di questo tipo sorsero un po' dappertutto, anche perché nelle città circondate da mura lo spazio a disposizione per costruire diventava sempre più scarso man mano che la cittadinanza infittiva. Se in Francia ce n'erano ben trentacinque – tre anche a Parigi, sull'Ile de la cité - il ponte abitato più famoso di tutti fu il London Bridge, edificato tra il 1176 e il 1209 e da non confondersi con l'attuale Tower Bridge, molto più tardo. Munito di ruote idrauliche e cancelli che venivano chiusi durante il coprifuoco, il ponte di Londra arrivò a contenere fino a 200 attività commerciali, numerosi appartamenti e perfino una cappella dedicata al santo e martire Thomas Becket. Anche qui c'era l'abitudine di esibire sulle picche le teste mozzate dei traditori, che venivano bollite e incatramate per proteggerle e prolungare il macabro spettacolo; molti crani famosi dondolarono dal ponte, tra cui quelli del ribelle William Wallace (avete mai visto Braveheart?) e del cancelliere e umanista Thomas More che aveva ostacolato il matrimonio di Enrico VIII con Anna Bolena. Con la modernizzazione ottocentesca il London Bridge, stretto, scomodo e soggetto a crolli e incendi, fu abbattuto e sostituito, cosa che giovò al traffico ma fece perdere la testimonianza indimenticabile d'un pezzo di storia inglese.


Sporgersi dalla spalletta di un ponte e guardare sotto può essere uno spettacolo emozionante: è quello che succede quando ci si affaccia dal ponte di Ronda, vicino a Malaga, che unisce la città vecchia a quella nuova, passando su una gola profonda fino a 120 metri, detta “El Tajo”, causata dall'erosione del fiume Guadalevin. Se si vuole invece intraprendere una traversata alla Indiana Jones occorre andare in oriente dove esistono ponti sospesi fatti di bambù o di instabili e tarlate assi di legno come quello lunghissimo di Hussaini, in Pakistan, retto solo da corde e considerato il più pericoloso del mondo. 
Il più alto invece si trova in Cina sulla Huangshan (letteralmente Montagna gialla), una serie di picchi famosi per le bellezze paesaggistiche, la stranezza delle formazioni rocciose, e gli straordinari giochi di luce dovuti alla presenza di nubi che spesso circondano le vette. Il ponte, detto “degli immortali” è a ottocento metri di altezza e congiunge due speroni di roccia: il luogo, che fa parte di un percorso turistico mozzafiato, quando sale la bruma assume un aspetto fiabesco e misterioso,facendo dimenticare che la costruzione è del secolo scorso anche se falsificata con un parapetto in stile cinese antico.

Fonti:

giovedì 21 settembre 2017

Innamorati, mucche e violinisti volanti: la vita di Chagall

Ci sono mucche in America?”: questa l'apparentemente ingenua domanda che il grande pittore ebreo Marc Chagall rivolse - nella Francia occupata dai nazisti - a Varian Fry, giornalista e intellettuale americano che era in Europa con l'incarico di salvare esuli, artisti, intellettuali antinazisti e antifascisti ricercati dalle polizie segrete, offrendo loro la possibilità di fuggire dall'altra parte dell'oceano Atlantico. L'artista non era uno sciocco, ma si affidava semplicemente alla sua immaginazione che lo teneva ancorato alla sua terra e cultura d'origine, rappresentata in centinaia di opere durante la sua lunghissima vita. Era nato sotto gli zar in una comunità di ebrei a Vitesbk, una cittadina attualmente parte della Bielorussia, ed era figlio di un venditore di aringhe e di una commerciante. Una famiglia modesta, numerosa e molto religiosa che – come insegnava la loro particolare dottrina, il Chassidismo, una versione popolare della Kabbalah – perseguiva una spiritualità semplice e accessibile alla gente comune per cui tutta la creazione è soffusa di divinità e perfino le azioni della vita quotidiana possono essere santificate dal sentimento e dalla pietà.

Gli ebrei nella Russia di fine Ottocento ammontavano ad oltre 5 milioni di persone; nonostante ciò erano soggetti a limitazioni e perfino persecuzioni, i pogrom, che turbarono anche l'infanzia di Chagall, che aveva appena visto la luce quando il villaggio fu devastato dai cosacchi, costringendo la madre alla fuga mentre era ancora affaticata dal parto (riferendosi a quell'episodio il pittore avrebbe detto più tardi:”Io sono nato morto”). La piccola comunità tuttavia si riservava anche momenti di gioia, feste e ritualità tra sacro e profano che lasciarono un traccia profonda nell'opera dell'artista, che si portò sempre dietro il ricordo del suo paese natale tratteggiandolo in figure simboliche ricorrenti: oltre alle case e ai tetti, la mucca, una metafora del nutrimento e della fertilità, il gallo, annunciatore della luce del giorno, l'albero, l'aringa - che gli ricordava il lavoro del padre – i candelieri, collegati alle feste ebraiche dello Shabbat o di Hannukka, la finestra aperta e il cavallo, ossia il bisogno di libertà, l'orologio a pendolo, simbolo del tempo che passa. Ma soprattutto il violinista - che a Vitesbk accompagnava momenti cruciali della vita come la nascita, il matrimonio, la morte, un personaggio errante come sarebbe stato l'artista durante quasi tutta la sua esistenza. Il tutto utilizzando dimensioni arbitrarie e in assenza di prospettiva, ignorando spazio e tempo, in un mescolarsi delle cose, delle persone, degli animali e delle piante.
Marc Chagall – che in realtà si chiamava Moishe Segal – iniziò molto precocemente a mostrare interesse per l'arte figurativa, in contraddizione con i precetti dell'Antico Testamento che vietavano l'uso di immagini. Dapprima contrariati e sconcertati, alla fine i familiari dovettero cedere e permisero al ragazzo di frequentare una locale scuola di pittura, per spedirlo poi appena ventenne a San Pietroburgo dove si iscrisse all'Accademia di Belle Arti. Non fu un periodo facile: per soggiornare in città gli ebrei dovevano ottenere un permesso speciale, senza contare il divieto di circolare alla sera che lui infranse prendendosi un mucchio di botte e due settimane di galera; in compenso la città era piena di stimoli culturali e di grandi personalità, tra cui Léon Bakst, uno scenografo e costumista che si era accostato al simbolismo ed ebbe una notevole influenza sugli artisti contemporanei. L'universo iconografico di Chagall si sviluppò proprio in questi anni, anche se si accorse ben presto che la Russia gli stava stretta: se Bakst aveva studiato a Parigi fu lì che nel 1910 il giovane decise di andare per approfondire la sua conoscenza dei grandi movimenti dell'avanguardia europea come Fauvismo, Espressionismo, Cubismo, Astrattismo, Dada, Surrealismo. Sulle rive della Senna si respirava un'aria di libertà che il piccolo ebreo non si era mai sognato di annusare in patria, ma nonostante la ricchezza dei fermenti culturali con cui venne a contatto, non ne rimase influenzato che superficialmente, dal momento che continuò imperterrito a dipingere scene della vita di Vitebsk e storie della tradizione chassidica.

Se il suo cuore era rimasto sulle rive del fiume Moscova c'era un altro motivo. Prima di partire aveva infatti conosciuto Bella Rosenfeld, studentessa di lettere prima, scrittrice poi, ma soprattutto in perfetta sintonia con le idee di Chagall che di lei avrebbe detto:”Bella scriveva come viveva, come amava, come accoglieva gli amici. Le sue parole, le sue frasi, sono una patina di colore sulla tela”. Fu amore a prima vista, coronato dal matrimonio nel 1915, al ritorno da Parigi, nonostante i genitori di lei - agiati commercianti di gioielli – non fossero d'accordo; finché Bella visse fu la sua musa e ispiratrice e la protagonista di quadri famosi in cui spesso una coppia di innamorati si abbraccia librandosi e fluttuando sopra i tetti della città, attirati dalle nuvole e dal blu profondo del cielo (il famoso blu Chagall). La coppia sarebbe dovuta ripartire per la Francia, ma lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e la rivoluzione che portò al rovesciamento dell'impero zarista cambiarono il corso delle cose. Dapprima l'artista aderì con entusiasmo al comunismo, che riconosceva agli ebrei pari diritti di cittadinanza; fu nominato dal ministro sovietico della Cultura Commissario dell'arte nella regione di Vitebsk, ma iniziò ben presto a scontrarsi coi principi propugnati dal nuovo regime che, per ragioni politiche e propagandistiche, preferiva un robusto realismo più adatto allo scopo di rieducare le masse alle nuove idee: nella sua biografia infatti Chagall ricorda di essersi sentito apertamente chiedere cosa avevano a che vedere con Marx ed Engels le sue mucche verdi e i cavalli volanti, domanda che nessun parigino si sarebbe mai sognato di fargli. Sopportò per qualche anno quella situazione poi se ne ritornò in Francia con la moglie e la bambina che era nata nel frattempo.

Aveva maturato l'idea di essere un eterno errabondo e lo lasciò scritto: “Mia soltanto è la patria della mia anima. Vi posso entrare senza passaporto e mi sento a casa; essa vede la mia tristezza e la mia solitudine ma non vi sono case: furono distrutte durante la mia infanzia, i loro inquilini volano nell'aria in cerca di una casa, vivono nella mia anima”.
La sua vita non doveva ancora avere pace. In Francia aveva ritrovato l'universo figurativo giovanile che aveva arricchito aggiungendo ai suoi quadri le icone della Torre Eiffel e della facciata di Notre-Dame, aveva ottenuto la cittadinanza e approfittato della libertà per viaggiare: in Spagna, in Olanda, in Italia, in Gran Bretagna, ma anche in Palestina, dove aveva dipinto il Muro del pianto. Era ormai famoso e quotato e si era lasciato alle spalle la povertà, ma nuove e gravi preoccupazioni sopraggiunsero con l'ascesa del nazismo che, oltre all'odio per gli ebrei, propugnava un'arte che rifiutava le “degenerazioni” delle avanguardie e voleva esaltare l'eroismo della razza ariana. Tra i pittori bollati c'era naturalmente Chagall, i cui quadri furono bruciati in Germania assieme a quelli di artisti come Klee, Kandinskij. Otto Dix, George Grosz e alle opere di Freud; in risposta l'artista dipinse “La crocifissione bianca” in cui vengono accomunate le sofferenze di Cristo, innocente e condannato in maniera ingiusta, e quelle del popolo ebraico, anch'esso vittima incolpevole.

Nel 1940 Hitler occupò la Francia e il pittore e la sua famiglia dovettero emigrare in America. Nonostante qui ritrovasse parecchi vecchi amici che erano scappati come lui dall'Europa, Chagall fece fatica ad ambientarsi nel nuovo mondo perché troppo angoscianti erano le notizie che provenivano dal vecchio continente: la guerra, l'invasione della Russia da parte dei tedeschi, lo sterminio degli ebrei, furono il soggetto di alcune drammatiche tele dai toni cupi dipinte negli anni Quaranta. Le commissioni però non gli mancavano: gli fu richiesto di realizzare scene e costumi per “Aleko”, balletto musicato da Ciajkovskij e lavoro adatto alle sue corde: fin dalla giovinezza infatti il pittore era sempre stato affascinato dal circo e dal teatro, amore che non lo abbandonerà mai e che lo porterà anche a realizzare negli anni Sessanta gli affreschi della cupola dell'Opéra Garnier a Parigi. Non riuscì tuttavia a rifarsi una vita perché la morte di Bella dopo una breve malattia lo fece sprofondare in una cupa depressione che gli impedì di dipingere per un anno. Come nella tradizione ebraica era usanza voltare gli specchi contro il muro durante il lutto, così fece con tutti i suoi quadri e, quando – anche grazie all'aiuto della figlia Ida e degli amici - riuscì a riprendere in mano i pennelli dopo quel terribile periodo, la sua donna scomparsa e la sua terra devastata e distrutta rimasero per sempre nelle sue tele nella dimensione del ricordo.

Avrebbe avuto altre due donne: Virginia Haggart McNeill, da cui ebbe un figlio, ma con cui non riuscì a ritrovare le affinità che aveva con la prima moglie e, al ritorno in Francia, Valentine Brodskij, detta “Vava”, russa ed ebrea come lui, che sarebbe diventata la compagna della sua vecchiaia. Alla fine della guerra la coppia si era stabilita a Saint-Paul-de-Vence in Costa azzurra. Qui Valentine lo incoraggiò ad affrontare anche il disegno di vetrate di cui produsse una serie, tra cui le più importanti sono quelle per la cattedrale di Notre-Dame a Reims, per quella di Metz, per la sede delle Nazioni Unite e la Sinagoga di Gerusalemme. In queste opere il pittore completò un suo personale viaggio all'interno della Bibbia, in cui ripescava i grandi temi dell'Antico Testamento che ben conosceva e che troveranno in seguito un ulteriore spazio espositivo nel Musée National Message Biblique di Nizza, realizzato mentre l'artista era ancora in vita. 

La notevolissima produzione di Chagall ormai spaziava in ogni campo: oltre che alla pittura e al vetro, si dedicò all'incisione, al mosaico, all'arazzo, all'affresco, alla ceramica e perfino alla scultura. Rimase sempre un originale: non aveva fondato scuole né aveva seguaci e lavorava in modo accanito, completamente nudo, perché non gli interessavano minimamente la moda e i vestiti. Si comportò così fino al giorno prima della sua morte, a 97 anni. Volle farsi seppellire nel cimitero cristiano della cittadina in contrasto col rabbino della sua comunità forse per rimarcare – lui che era sempre stato un apolide – il sogno di un'umanità unita e compassionevole al di là delle differenze di razza e religione.

Fonti:
Federica Tammarazio: Chagall, la vita e l'arte. Rizzoli, Skira