lunedì 14 dicembre 2015

Il duomo di Modena, un libro di pietra tra sacro e profano

Inserita nel 387 dal vescovo Ambrogio di Milano tra i "cadaveri di città semidiroccate", Modena era all’inizio del medioevo il fantasma della ricca e fiorente “Mutina” romana: travolta dalle invasioni barbariche e devastata da violente alluvioni, invasa dalle acque a dalla vegetazione, era stata infatti abbandonata dai suoi abitanti. A cominciare dal IX secolo, grazie ai lavori di sistemazione promossi dai vescovi che governavano il territorio, il piccolo borgo in rovina cominciò a ripopolarsi, dotandosi di una cerchia di mura e di una prima chiesa costruita per contenere le spoglie di San Geminiano, che era stato vescovo della città nel IV secolo e a cui l’agiografia attribuisce – oltre a proprietà taumaturgiche – anche la capacità di scacciare i demoni.  Nel religioso medioevo le cattedrali erano il luogo dell’identità cittadina ed importanti centri di aggregazione che facevano capo al Vescovo, la massima autorità  spirituale e politica che si opponeva alle prepotenze delle famiglie feudali. Questi edifici avevano inoltre la funzione di reliquiario poiché contenevano le spoglie del santo o del martire locale, e riflettevano lo spirito cristiano del tempo che riteneva che la vita fosse da intendere come una preparazione all’avvento del regno di Dio: l’esistenza umana era rappresentata nelle decorazioni come breve, incerta e faticosa e inevitabilmente coronata dalla morte che poteva aprire le porte al regno dei beati o alla rovente palude dell’inferno.
Dopo il Mille Modena fu coinvolta nei mutamenti di assetto politico  e nelle nuove iniziative economiche che in tutta Europa accompagnavano la rinascita dei comuni, sostenuta dalla fioritura di un rinnovato linguaggio culturale che si esprimeva soprattutto nella costruzione di importanti cattedrali romaniche. Il caso della città è però particolare rispetto a molte altre: il Vescovo era al momento vacante e fu solo grazie all’iniziativa della popolazione e del clero cittadino che fu deciso - in autonomia dal potere feudale e religioso – di demolire la vecchia chiesa ormai pericolante e di costruirne una nuova più grande e più bella. La storia di questa orgogliosa libertà di scelta è narrata in un prezioso documento conservato nell’Archivio capitolare del duomo, la “Relatio de Innovatione Ecclesie Sancti Geminiani ac de Translatione Eius Beatissimi Corporis”, in cui si racconta la ricerca in luoghi lontani dell’architetto Lanfranco, dell’inizio dei lavori  nel 1099, e della traslazione del corpo di Geminiano avvenuta nel 1106 non senza notevoli discussioni nella comunità locale. Alcune miniature vivacissime illustrano la cronaca dandoci uno spaccato della società modenese dell’epoca e rappresentandone gli attori: dall’architetto, raffigurato in posa di dignità col bastone del comando, agli operai scarmigliati che scavano e portano le gerle coi materiali, alla gran contessa Matilde di Canossa, che compose  ogni questione non senza la scorta di cittadini e cavalieri in armi. Anche se non sappiamo nulla di Lanfranco il duomo, sua unica opera nota, esprime la sua conoscenza dell’arte romanica lombarda e di quella classica, basata sullo studio degli autori latini; 
il progetto iniziale – poi modificato da maestranze successive – consisteva in un’austera basilica paleocristiana coperta da capriate in legno (più tardi sostituite con volte in muratura) e dotata di finto matroneo, il cui motivo unificante – esterno e interno - era costituito da una serie di trifore incapsulate in un unico arco. Lanfranco utilizzò inoltre una grande varietà di materiali lapidei provenienti dal nord Italia, mescolandoli con elementi di spoglio recuperati dagli scavi della Mutina romana e preferendo colori chiari che danno all'edificio un’inconfondibile tonalità bianco-rosata.
La straordinaria decorazione scultorea che si estende sulla facciata, sui portali, sui capitelli, sulle metope che coronano i contrafforti laterali, si deve invece in parte a Wiligelmo - di cui non abbiamo altre notizie se non la firma auto elogiativa su un pannello accanto alla porta d’ingresso - in parte a maestri che sulla scia del suo stile operarono in epoca successiva. In questi bassorilievi si dispiega con vivacissima fantasia il sapere medievale, che spazia dalla conoscenza della Bibbia e dei testi sacri a temi dell’antichità classica rivisitati con spirito cristiano; dalle novelle popolari che vengono qui presentate come esempi morali, alla riproposizione di argomenti tratti dai Bestiari - una particolare categoria di libri che descrivevano, attingendo al mito, animali e creature fantastiche - ai cicli delle leggende cavalleresche nord europee che hanno come protagonista principale il leggendario re Artù. 

A parte i canonici e gli eruditi la gente non sapeva leggere: l’arte aveva innanzitutto la funzione di istruire sui fatti della religione, sebbene in molte sculture del duomo emergano racconti profani, probabilmente tramandati di generazione in generazione e caratterizzati da una forte vitalità popolaresca e contadina. Il programma dei rilievi della facciata riassume la fede e le speranze, i dubbi e le paure dell’uomo medievale, sottolineando la fugacità dell’esistenza (due geni funerari che spengono la fiaccola della vita) e la faticosa lotta per la salvezza spirituale. Il linguaggio di Wiligelmo è rude ed espressivo: il racconto di Adamo ed Eva nelle storie della Genesi è narrato nei dettagli essenziali per renderlo più comprensibile al pubblico dei credenti. Sul portale principale è scandita la tesi del peccato e della redenzione: fra intricati viluppi vegetali - la “selva oscura” della vita – divampa la lotta tra gli esseri umani e una selvaggia schiera di leoni, draghi, centauri e creature immaginarie, mentre allo stesso tempo Patriarchi e Profeti annunciano la venuta di Cristo e della vera e unica salvezza. 

Nei capitelli, nelle metope e nelle altre porte dell’edificio trionfa l’immaginazione: in quella detta “della Pescheria”, oltre al ciclo dei Mesi - tema caro al Medioevo che descrive contadini intenti ai lavori tipici di ogni stagione - sono scolpiti anche episodi tratti dal patrimonio favolistico classico e da quello francese: nel “Funerale della volpe”, l’astuto predatore convince due sciocchi galletti che sta morendo e li prega di seppellirla, per poi agguantarli e divorarseli. Morale: non siate troppo ingenui o ci rimetterete letteralmente le penne. Altrove si scoprono riferimenti al “Liber Monstrorum”, una compilazione alto medievale di notizie mirabili con riferimento a fantastici popoli che si credeva popolassero il mondo non conosciuto: il catalogo modenese comprende la fanciulla con tre braccia, l'ittiofago dalla zampa equina, la sirena bicaudata, l'ermafrodito.
Quest'ultimo - ora al Museo lapidario del Duomo - rappresenta una donna a gambe spalancate munita di genitali maschili, denominata "la potta di Modena" con riferimento alla posa giudicata oscena e mal tollerata dalla popolazione e dalla soldataglia che ne fece oggetto di atti vandalici e colpi di archibugio. Lo studio delle straordinarie sculture della cattedrale crea non pochi problemi di identificazione e registra continue sorprese: che significa il capitello dove guerrieri che combattono sono violentemente colpiti da dietro da due signore munite si scopa? Il solito, maschilista pregiudizio sul carattere femminile bisbetico e arrogante oppure una manifestazione antimilitarista ante litteram? Forse noi moderni preferiremmo la seconda ipotesi.

Fonti
Sandra Baragli, Francesca Piccinini, Costruire nel Medioevo, Comune di Modena, Museo civico d’Arte di Modena