lunedì 11 dicembre 2017

La Madonna e il Bambin Gesù nell'arte e nella cultura popolare

In un'epoca che ha istituito il Natale come grande festa del consumo e della gioia forzata e obbligatoria potrebbe sembrare brutto raccontare di come nell'antichità fosse percepita la nascita di Gesù, che era solo raramente associata all'innocenza infantile e alle gioie della maternità, mentre il piccolo spesso non era né bello, né paffuto e – diciamolo pure – un po' zuccheroso come lo si pensa oggi.
Cominciando dall'inizio, tra il III e IV secolo alcuni concili ecclesiastici si occuparono della Madonna per definirne dogmaticamente la natura, innanzitutto come genitrice di Cristo - in greco Theotokos (Madre di Dio) - poi nel suo stato di verginità perpetua col concilio di Costantinopoli. Nello stesso periodo comparvero le prime immagini di Maria col Bimbo in braccio – la più antica nelle catacombe di Priscilla a Roma – che rimarranno un topos dell'arte sacra assieme ad altre caratteristiche raffigurazioni dell'infanzia divina: la nascita, la circoncisione, la presentazione al Tempio di Gerusalemme, l'adorazione dei Magi, la fuga in Egitto e poi – con un Gesù più grandicello – la disputa coi dottori. Nei primi periodi del cristianesimo e durante l'alto Medioevo nell'arte sacra si rappresentò una Vergine stilizzata di impronta bizantina mentre regge un infante decisamente bruttino, con tratti da adulto e a volte perfino stempiato. 

Questo piccolo Gesù serioso era in realtà percepito non come un infante ma come Dio e Signore e quindi nel pieno del suo dominio e della consapevolezza della sua regalità, anche per questo frequentemente vestito di porpora e d'oro, i tessuti indossati dall'imperatore. Ancora della serie “Cristo bambino-adulto” è l'immagine dell'Anapesòn - che si è diffusa solamente in area bizantina - un vero e proprio fanciullone sdraiato a terra e apparentemente addormentato, sorvegliato da due angeli o accudito da Maria. La raffigurazione si ispira alla “Profezia di Giacobbe” della Genesi, in cui si parla del leone di Giuda che pur dormendo veglia, figura che anticipa la venuta di Cristo e la sua vittoria.
Nella primitiva arte cristiana i gesti delle mani della Madre e del Figlio avevano un loro preciso significato che a noi ormai sfugge. Ha pensato a studiarli Chiara Frugoni, la nota medievista che ci ha scritto un libro sopra: “La voce delle immagini. Pillole iconografiche del Medioevo”. La studiosa parte da un'affermazione di Sant'Ambrogio che dichiara come la manifestazione plateale del dolore sia roba da pagani, mentre un vero cristiano deve sopportare la sua pena e financo la morte con dignità e sobrietà. Le indicazioni del vescovo di Milano influenzarono le arti visive dove si pensò di ricorrere solo a movimenti delle dita per indicare cosa stava succedendo: tanto per fare un esempio il noto segno della benedizione eseguito da Gesù – due dita alzate, pollice anulare e mignolo piegati sul palmo – voleva dire che stava parlando, e non certamente con i deliziosi e incomprensibili “maaa baaa ngaaa” di un neonato, ma spiegando piuttosto i sacri e misteriosi contenuti del Verbo.
Con l'avanzare del Medioevo il Cristo bambino e trionfante degli antichi fu sempre di più associato alla sua terribile morte: valga per tutti la Natività dello scultore Lorenzo Maitani che nei suoi bassorilievi sulla facciata del Duomo di Orvieto immagina un Gesù che invece che di giacere in una greppia è adagiato dentro un sarcofago; l'idea della lastra tombale è stata ripresa nel Rinascimento da altri artisti come Giovanni Bellini, che non poche volte fa allungare il tenero corpicino su un piano di marmo gelido. Il colore rosso che spesso compare in queste rappresentazioni è un ulteriore filo conduttore che lega la Madonna al martirio del Figlio: si può trattare dei petali di un garofano, di alcune ciliegie o di un grappolo d'uva che per il suo succo scuro allude al sangue che sarà versato. In altri casi un rametto di corallo è appeso al collo del neonato, secondo un'usanza molto diffusa nell'antichità: il grazioso ciondolo aveva la valenza di un amuleto porta fortuna perché gli antichi erano convinti che scacciasse i fulmini, rendesse le donne fertili e in generale tenesse lontano le disgrazie. Anche animali come il cardellino e il pettirosso furono accostati al piccolo Salvatore: nel Medioevo era usanza regalare ai bambini un uccelletto con cui giocare legandogli una zampetta con un cordoncino. A causa dei loro colori le due bestiole furono considerate anche allusive alla passione; una leggenda antica raccontava come un pettirosso, in origine grigio, si fosse commosso nel vedere Cristo coronato di spine e avesse cercato di toglierne una sporcandosi il piumaggio di sangue: la macchia sarebbe diventata per miracolo un segno indelebile per ricordare a tutti gli uomini la sua generosità.

E' proprio durante il periodo gotico che il rapporto affettivo Madre e Figlio si colorò di connotazioni drammatiche, mentre le espressioni si fecero pensose e malinconiche. Il pittore senese Ambrogio Lorenzetti dipinse una Madonna con un manto molto scuro e un bambinone biondo con gli occhi spalancati e impauriti che quasi stritola l'ala di un cardellino; una vera e propria manifestazione di terrore si dipinge ancora sul volto del piccolo Gesù in un affresco dello stesso artista nella chiesa di Sant'Agostino a Siena. Oltre ai tristi presentimenti si inserirono però anche note intime e affettuose, e si devono ancora una volta al Lorenzetti alcune delle opere in cui ciò che era considerato sacro e distante venne ricondotto a una vibrante e intensa relazione umana. Di questo genere furono le molteplici “Madonne del latte”, effigi realistiche di una mamma che nutre il suo piccino, iconografia che risale all'antico Egitto dove Iside era spesso rappresentata con il neonato Horus attaccato al seno. Il tema ebbe successo e si diffuse in tutta Europa anche perché si riteneva che l'immagine avesse una valenza taumaturgica e proteggesse le puerpere e i loro bambini; mentre si moltiplicavano le reliquie del “Sacro latte” - ce ne sono parecchie anche oggi, anche se la Chiesa cerca di non farne troppa pubblicità - il soggetto fu affrontato da maestri come Leonardo, Raffaello, Michelangelo, e in Francia da Jean Fouquet, che nel dittico di Melun volle rappresentare una elegantissima, sensuale e formosa Madonna col seno scoperto, probabile ritratto di Agnès Sorel, amante del re Carlo VII. 
La figura della Madre di Dio col Bimbo che poppa si prestava però ad equivoci, ed è proprio per questo motivo che nel XVI secolo il Concilio di Trento la considerò sconveniente e cercò di proibirne o almeno limitarne la riproduzione.
Si deve al Rinascimento lo studio anatomico dei corpi umani e l'invenzione della prospettiva, che portò a una arte meno stilizzata e più realistica di quella medievale: Vergine e Figlio furono realizzati con maggior attenzione al naturalismo e a volte perfino senza l'aureola. Raffaello in particolare – pur nella sua breve vita - realizzò una vasta produzione di Madonne che erano vere bellezze dai lineamenti classici e dall'espressione dolcissima, accompagnate da un grosso neonato pasciuto e spesso nudo ma sempre con un fare da adulto, a volte dotato d'un libro, a volte col cardellino o spesso in compagnia di un San Giovannino che gli porge la croce della passione. Accanto alle arti figurative per l'iconografia della nascita e della passione non fu certo secondario il ruolo delle sacre rappresentazioni, drammi liturgici che si diffusero dal Mille fino al XVIII secolo con la partecipazione di attori veri mescolati a sculture lignee per i personaggi principali. Queste bambole – spesso dei reliquiari – erano anche oggetto di devozione popolare, finirono per spargersi per tutta Europa e dettero il via, assieme al famoso presepe francescano di Greccio, a ulteriori installazioni presepiali che sono culminate nella fastosità di quello napoletano.

Intanto a fianco della grande arte comparve una ricca produzione devozionale destinata principalmente alle giovani monache dei conventi. E' noto che in antico – basta pensare alla vicenda della monaca di Monza narrata dal Manzoni – per non compromettere il patrimonio familiare con doti costose, le figlie minori erano forzatamente avviate al convento. La soluzione riempiva questi luoghi di giovani donne scontente che sentivano il desiderio di una vita normale e che erano spesso turbate dalla semplice visione del bel corpo nudo di Cristo crocifisso. Fu quindi per cause morali che nacque “l'arte per le monache” dove i Gesù adulti furono sostituiti dai cosiddetti “Bambini della passione” ossia bambole in legno o terracotta dal viso addolorato e alle prese con croce, chiodi, corone di spine. Queste piccole sculture erano realizzate in totale nudità, e in seguito vestite con indumenti preziosi e intercambiabili a seconda delle festività liturgiche. Una variante del genere conventuale è costituita dai dipinti in cui il piccolo è addormentato sulla croce o si appoggia a un teschio, motivo collegato al tema del “memento mori” (frase che letteralmente significa “ricordati che devi morire”) molto diffuso durante la Controriforma.

L'invenzione della xilografia su matrici di legno – frutto dell'ingegno cinese come la carta, la bussola a la polvere da sparo – e poi della stampa, permise anche la riproduzione in serie di immagini sacre che avevano tra l'altro il vantaggio di costare poco. A partire dal XVI secolo si deve anche ai gesuiti la diffusione dei santini come strumento di propaganda cristiana: i cartoncini decorati diffusero, oltre al culto dei santi, anche quello della coppia Madre e Figlio o semplicemente del secondo rappresentato in varie tipologie: dal Gesù sulla paglia, a quello eucaristico con il calice e l'ostia, al bimbo che regge un agnello innocente, al signore dell'universo col globo crociato in mano, a Gesù Bambino risorto e vittorioso. La produzione delle immaginette si moltiplicò dalla fine del Settecento quando la Chiesa decise di distribuirle col proprio Imprimatur. Grazie alla tecnica ottocentesca della cromolitografia queste opere un po' leziose entrarono in ogni casa finendo per decadere come oggetto devozionale per entrare durante il Novecento nel circuito del collezionismo.

Fonti:
Chiara Frugoni, La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo